giovedì 10 aprile 2008

Com’è cambiato il nostro fiume…

Pescia, piccola ed antica città ubicata in provincia di Pistoia, prende il proprio nome dal piccolo fiume che l’attraversa e che, recentemente, ha subito radicali trasformazioni per l’intervento umano.
Di conseguenza, i non più giovani per averlo frequentato ed averci vissuto in prima persona ed i giovani d’oggi per aver preso visione delle numerose foto esistenti al riguardo, si rendono conto di quanto sia cambiato l’aspetto del fiume Pescia, negli ultimi decenni.
Checché se ne dica, per il pesciatino verace la Pescia è sempre stato un fiume e non un semplice torrente …che vien giù dalla montagna!
Intere generazioni sono in sostanza, nate nel fiume ed ivi hanno trascorso la maggior parte della gioventù, trastullandosi e, qualcuno, perfino lavorando sul suo sassoso greto.
Ciò che più sconcerta i veterani è la conformazione attuale del letto fluviale, così diversa e stravolta rispetto ad allora.
Nonostante tutto, fare polemiche ed apprezzamenti poco lusinghieri sarebbe inutile ed ingiusto verso coloro che si sono diligentemente prodigati al fine di porre in sicurezza argini ed alveo del fiume.
Elementi, che per tanti lustri hanno messo in pericolo la sicurezza della città e della circostante campagna, sono oggi un efficiente modello di come dovrebbero essere sistemati i corsi d’acqua dell’intero paese.
Però un senso di rimpianto alberga nel cuore del vecchio pesciatino che non può scordarsi di quanto era bello, pittoresco e ricco di pesce e rane il vecchio fiume.
Il letto era, in prevalenza, formato da macigni staccatisi dalla montagna (massi), che nello scendere a valle e frantumandosi, divenivano progressivamente più piccoli e levigati (pilloni e ghiaia).
L’acqua scorreva in ampie e lente anse, lambendo alternativamente l’uno e l’altro degli argini.
Volitive e ciarliere popolane scendevano nel fiume in chiassose comitive per affaticarsi nel settimanale bucato in questi limpidi specchi d’acqua; usavano, poi, stendere sul sassoso greto gli immacolati e profumati lenzuoli al fine di asciugarli al caldo sole.
Si dava forma allora, ad un idilliaco quadro e la gente che si trovava a passare sul ponte del Duomo si soffermava estasiata a rimirare quello che appariva, tale e quale, simile ad un quadro dei maestri macchiaioli livornesi.
Con le violente piene invernali e primaverili si venivano a configurare ampie distese d’acqua ristagnante che, essendo anche assai profonde, erano chiamate bozzoni e che per il pesciatino costituivano il mare …….(il mare dei poveri!).
Infatti, oltre a permettere grandi tuffi dall’argine ed estenuanti nuotate a grandi e piccini, tali bozzoni avevano le rive ricoperte da finissima sabbia che non aveva nulla da invidiare a quella, ben più famosa, della vicina Viareggio.
Negli assolati pomeriggi estivi ragazzi e adulti erano soliti crogiolarsi al rovente sole, dopo essersi
rinfrescati con lentezza nell’acqua limpida.
Qualche assetato (non c’erano ancora le indistruttibili ed invasive bottiglie d’acqua minerale) scavava fra la ghiaia in un luogo asciutto; scavava finché non affiorava acqua e, recitando una vecchia filastrocca locale, si dava a berla per calmare la sete incipiente; questi erano gli ingenui versi recitati: “L’acqua corrente la beve il serpente, la beve Iddio, la posso bere anch’io!”
Da quello che mi risulta nessuno contrasse, così facendo, tifo, dissenteria od altri malanni del genere, anzi godevano tutti di una salute invidiabile, tanto erano magri, affilati ed abbronzati (senza diete e senza l’ausilio di lampade solari!).
Spesso, dove il “bozzone” restringeva, si edificavano con “pilloni” stuccati con erba ed alghe, vere e proprie dighe, aventi lo scopo d’alzare ulteriormente il livello dell’acqua.
I ragazzi correvano a piedi scalzi su per i sassi appuntiti, con la pianta del piede protetta da una spessa callosità che li salvava da ferite ed escoriazioni, alla pari di robusta suola di cuoio.
In ogni modo gli abituali frequentatori del corso d'acqua non erano certo figli di papà.
Questi tipetti passeggiavano, rigidi e col petto in fuori, sui viali lungo il fiume; di sicuro avrebbero pagato per partecipare alle scorribande fluviali dei figli del popolino, anziché essere costretti, dai signori genitori a fare sfoggio d’eleganza pacchiana e di tanta inappropriata superbia; vigeva allora una manifesta separazione fra i diversi ceti cittadini che si cercava, se possibile, di non mischiare.
Soventemente, l’assolato greto era testimone d' agguerrite sassaiole fra bande di ragazzi rivali, provenienti dalle opposte rive del fiume e con in testa, per protezione, pentole e pitali rubati in casa propria.
Spesso ciò accadeva per rivendicare il diritto di fare per primi il bagno nel nuovo bozzone creato dall’ultima piena o per accaparrarsi i diritti su di un banco di sabbia; ogni scusa era buona per dare inizio a cruente battaglie.
Queste avevano poi termine con l’intervento degli arrabbiatissimi genitori che, tanto per cambiare prendevano a sberle (pacconi, botte, cinghiate, calcinculo e ciaffate) i recidivi figlioli per portarseli a casa o all’ospedale per sottoporli a certe dolorose ricuciture del cuoio capelluto, lacerato da una maligna sassata; gli infermieri, istruiti a dovere, ricucivano le ferite rudemente e senza preventiva anestesia così da eliminare eventuali rimasugli di velleità negli schizzati monelli.
Allora non esisteva il così chiamato telefono azzurro ed ognuno si teneva le sue “botte” e i suoi lividi in silenzioso e cogitabondo arzigogolare sulla propria malasorte.
Un’altra peculiarità della Pescia era quella di dare lavoro a qualche renaiolo che sbarcava la giornata setacciando sabbia e ghiaia per l’edilizia; questo lavoro veniva fatto scagliando il materiale dell’alveo, con gran lena, contro certi telai verticali che portavano una fitta rete metallica; questo sistema permetteva di separare la sabbia dai sassi e la rendeva consona per la malta dei muratori.
Si cavavano sassi di misure assortite e si portavano, con immani fatiche, sulle strade adiacenti il fiume e che servivano, anche questi, agli operai edili.
Ricordo un tale, che con gran tenacia ed in spazi specifici, vagliava palate e palate di materiale di riporto, per ricavarne cumuli di minuscoli e colorati frammenti di vetro, utilizzati dalle locali vetrerie; essi erano la risulta del frammentarsi, ruzzolando nella corrente impetuosa, di bottiglie ed altri oggetti di vetro, scaricati a monte dagli antesignani degli attuali inquinatori.
Lungo l’argine, nei punti più calmi, la piena rilasciava grandi quantità di terra ed humus fertilissimo; era questo e su scala infinitesimale, l’equivalente risultato delle piene annuali del Nilo!
Molti volenterosi recintavano piccole porzioni di questa terra (i famosi orticini) ed ivi coltivavano ogni genere di verdure dal sapore straordinario.
Il letto del fiume si prestava a numerose attività complementari per i cittadini più ingegnosi e fra queste la più caratteristica era quella di…….ballar le panelle!
Queste panelle erano fatte con il cosiddetto mortellaccio che altro non era che uno scarto delle numerose concerie, allora presenti in quel di Pescia.
Il mortellaccio era scaricato, oltre che nelle corti cittadine e nelle aie, anche nell’orticino e lavorato in maniera adeguata: se ne prendeva, con una pala, un’adatta quantità da versar dentro un cerchietto metallico, largo circa quindici centimetri ed alto quattro.
Ora veniva la parte più importante: a piedi rigorosamente scalzi, si cominciava letteralmente a ballare sul cerchietto con i talloni, al fine di comprimere l’umida e scura segatura (era questo il materiale costituente il mortellaccio).
Quando il tutto era ben compattato, con destrezza si estraeva la panella dal cerchio e si metteva, in pile ben ordinate, ad asciugare al sole estivo.
Queste panelle sarebbero servite, nell’inverno successivo, a riscaldare le fredde case d’allora, bruciando lentamente nelle cucine economiche, alla faccia dell’esecrabile petrolio e dei suoi dannosi derivati.
Bisogna riconoscere che allora esisteva l’arte di arrangiarsi, mentre ora tutto deve essere disponibile senza fatica e senza dannarsi l’anima, con certi risultati ben visibili a tutti.
Per tornare a parlare del vecchio fiume c’è da dire che la sua fauna ittica e volatile era ben diversa da quella attuale.
Nei punti dove l’acqua era quasi ferma, allignavano lunghe alghe verdissime (la belletta) che formavano il paradiso di minuscoli abitatori acquatici; fra questi la larva della variopinta, e fulminea nel volo, libellula e l’incredibile idrometra (hydrometra stagnorum) conosciuta come “ la spia”: questo minuscolo tesserino, lungo un centimetro, pattinava, con grazia ed eleganza, con esili e lunghe zampette, sulla superficie acquatica; c’era la credenza che facessero da spie ai pesci, avvisandoli dell’approssimarsi di qualche pericolo.
L’acqua pullulava di diverse qualità di pesci fra cui lo scomparso e pregiato pescatello, il minuscolo (piccolo e saporito) vairone, l’astuto barbo, la piccola alborella e l’elusiva anguilla, per non parlare di una varietà di piccolo pesce persico (in loco chiamato orologio) che era coloratissimo e poco commestibile.
Ma il re del fiume era lui, il ranocchio.
Questo petulante batrace deponeva le proprie uova in lunghi filamenti, ancorati sul fondo; da esse sarebbero poi nati innumerevoli girini (i capaccioli) che dopo alterne fasi si mutavano in rane adulte.
Giorno e notte i suoi concerti riempivano l’aria del fiume e davano un caratteristico tono al circostante ambiente.
Erano graziosi con la loro verde e scivolosa livrea e costituivano una leccornia eccezionale.
Ingegnosi erano i metodi per catturarli ed erano, da lungo tempo, usati dai pescatori professionali, operanti nel vicino padule.
Potevi camminar nell’acqua poco profonda ed abbacinarli con luminosissime lampade a carburo ed
i più abili li afferravano prima che si nascondessero nel letto limaccioso.
C’era chi procedeva lentamente con l’acqua alle ginocchia e li catturava tastando il fondo.
Noi ragazzi riuscivamo ad agganciarli con un grosso amo ad ancoretta che, però straziava loro le carni e li faceva soffrire troppo.
Il ranocchio innamorato che corteggia la femmina si fa imprudente, finendo per essere facile preda delle lunghe ed innocue bisce, grossi topi di chiavica e…dell’uomo!
Già, bisogna dire che tutti questi pesci ed anfibi facevano parte dell’alimentazione popolare ed erano particolarmente apprezzati infarinati e fritti nell’onnipresente padella, accompagnati dalle sapide verdure raccolte nell’orticino del babbo; di solito in tal luogo si facevano, spesso e volentieri, pranzi, cene e grandi libagioni non essendo ancora la gente, vittima dell’odierno stress.
Può oggi, sembrare impossibile, ma allora c’era tempo disponibile per tutto, perfino per i rapporti umani con i vicini e gli amici.
Tornando all’argomento primario si constata che questo tipo di fauna oggi non esiste più da queste parti e tutti quei pesci ed anfibi sono stati spodestati dal cannibalesco ed insaziabile cavedano (nome scientifico Leuciscus cephalus).
Infatti tale cavedano, al contrario della maggior parte dei pesci d’acqua dolce, non ha bisogno delle stagni per alimentarsi e riprodursi e con l’acqua che, oggidì, scorre veloce nel letto rettilineo, ha avuto buon gioco il suo inarrestabile riprodursi a danno di altre specie.
Gli uccelli erano rappresentati dai balestrucci (balestrini), rondini comuni e rondoni sfreccianti a pelo d’acqua, passerotti, cardellini e dalle saltellanti ballerine gialle (nome scientifico Motacilla cinerea).
La vegetazione era prettamente acquatica: giunchi, salie (salici nani) e tante ondeggianti alghe; le piene primaverili, improvvise e violente spazzavano via, talvolta, le piante rivierasche prima che attecchissero in modo stabile e crescessero a dismisura come crescono oggi.
Molte piante erano utili per ricavarne legacci usati in agricoltura al fine di sostenere le piante orticole e floreali.
Nelle sere estive intere famiglie amiche si riunivano negli orticini o sui banchi di rena a mangiare qualcosa, raccontandosi la passata giornata ed aspettare l’ora che volge al desio( e ai naviganti intenerisce il core)……

Giancarlo Noferini

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