Nel 1945 si riunì a San Francisco (U.S.A.) una conferenza di delegati di molti stati per costituire l’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’Italia non fu invitata.
Io frequentavo allora (era l’anno scolastico 1944-1945) l’Istituto magistrale che era, a quel tempo, l’unica scuola media superiore femminile presente in città, era parificata e retta dalle suore di Don Bosco.
La guerra era forse appena finita per noi, continuava, forse, in Germania; finì l’8 maggio.
A Pescia, in un edificio che era stato la mia scuola elementare prima e poi parte di un ospedale militare territoriale, era stato sistemato un centro sanitario dove venivano curati i partigiani feriti o malati, che, poi, per la convalescenza, erano ospitati in una villa nell’immediata periferia.
In occasione dell’inizio dei lavori a san Francisco, alcuni giovani partigiani vennero alla mia scuola per chiedere che ci si facesse uscire per manifestare, con gli studenti della scuola Agraria (tutti maschi), la contrarietà dell’Italia per non essere presente alla conferenza.
Naturalmente le suore non acconsentirono, Suor Cordiez, professoressa di filosofia, probabilmente il giorno dopo, ci dette notizia della cosa, commentando con benevola ironia che “quei giovani” che avevano detto: “sono vent’anni che aspettiamo di manifestare” di anni non ne avevano molto più di venti.
Durante le lezioni comunque qualcosa trafelò nelle classi e dalle finestre vedemmo il corteo dei ragazzi dell’Agraria.
Uscendo poi, a fine mattinata, notammo alcuni giovani che si erano fermati in prossimità del portone della scuola. Né ricordo in particolare uno perché si appoggiava ad un bastone.
Noi non avevamo preso parte a quella manifestazione, e se politica è partecipazione, noi perdemmo la nostra prima occasione di “fare politica”.
Etheridge Rosa
giovedì 24 aprile 2008
LA MIA VALLE
E come potrei
Io mai dimenticare
I verdi, grigi,
azzurri colli
che,
nel crepuscolo
quieto della sera,
disegnavano
ondulanti
i confini
della mia valle.
Sira Michelotti
Io mai dimenticare
I verdi, grigi,
azzurri colli
che,
nel crepuscolo
quieto della sera,
disegnavano
ondulanti
i confini
della mia valle.
Sira Michelotti
“SI STAVA MEGLIO PRIMA…”
Quando ero giovane questa frase, oppure l’altra, “Ai miei tempi si stava meglio…” l’ho sentita ripetere centinaia di volte da persone anziane che frequentavo, ed anche dai miei genitori.
Devo dire che tali frasi mi sembravano delle “bestialità” considerando il livello di benessere raggiunto dalla popolazione via via che il progresso e la scienza avanzavano a passi da gigante.
Allora ritenevo che questi discorsi fossero soltanto il frutto della nostalgia e del rammarico di non essere più giovani.
Pensavo che fosse soltanto banale retorica, mai avrei creduto che anch’io un giorno li avrei fatti.
Ora che purtroppo anch’io ho imboccato il viale del tramonto mi ritrovo a pensare, anche se non lo dico, che sì, forse “Si stava meglio prima…”; e allora mi domando se non stia “rincoglionendo!”
Quando però mi metto a riflettere con più attenzione mi convinco che, effettivamente, molte cose erano meglio prima.
Una era senza dubbio molto meglio prima: i rapporti umani che esistevano fra conoscenti e abitanti dello stesso quartiere.
Probabilmente ci accomunava la grande miseria (parlo del primo dopoguerra).
Ricordo che nel casamento dove abitavo, le massaie, allora si chiamavano così, si scambiavano i favori ed anche il cibo e questo avveniva con grande naturalezza, senza alcun ritegno, ritenendo evidentemente logico aiutarsi l’un l’altra.
Altra cosa positiva di allora, a mio parere, era accontentarsi della nostra condizione, senza guardare chi aveva più di noi.
Noi ragazzi eravamo felici quando i nostri genitori potevano darci qualche lira; subito correvamo dal giornalaio a comprare le figurine dei calciatori e dei ciclisti.
Iniziava allora il mercato dei “doppioni”: passavamo delle ore a fare gli scambi e quando avevamo una figurina “rara” il prezzo saliva.
Alcuni di quei ragazzi da grandi hanno intrapreso l’attività di commercianti e chissà se lo scambio di figurine e giornalini, praticato da piccoli, non gli sia servito da scuola!
A questo punto non posso non pensare alla differenza con i ragazzi di oggi, ai quali non manca niente, alcuni di loro hanno non uno ma due telefonini e non sono mai contenti.
Si annoiano sempre, mentre noi inventavamo continuamente nuovi giochi fatti di niente e non sapevamo cosa fosse la noia.
Se proprio non avessimo saputo cosa fare c’era sempre la caccia alle lucertole.
E la Pescia ci aspettava per fare alle sassate con i “domaioli” o chiappare anguille e ranocchi.
Altra cosa che ritengo fosse meglio prima era l’aspettativa e l’entusiasmo che avevamo per il futuro. Venivamo dal periodo bellico, avevamo passato dei momenti orribili; il futuro non poteva che essere migliore, molto migliore.
E noi tutti ci rimboccammo le maniche perché ciò avvenisse!
E difatti avvenne e in tutto il mondo lo chiamarono “il miracolo italiano”.
Se penso a qual è oggi la prospettiva che hanno i giovani che devono formarsi una famiglia, con la precarietà del lavoro, le pretese sempre crescenti instillate dal
consumismo imperante, basta vedere gli spot televisivi dai quali sembra che abbiamo bisogno solo di nuovi e più sofisticati cellulari “tuttofare” e di auto sempre più fantascientifiche; ebbene se penso a tutto questo mi viene proprio da dire:Si! ”Si stava meglio prima…”
Ma forse sto proprio rincoglionendo!!!!!!!!!!
Romano Zanobini
Devo dire che tali frasi mi sembravano delle “bestialità” considerando il livello di benessere raggiunto dalla popolazione via via che il progresso e la scienza avanzavano a passi da gigante.
Allora ritenevo che questi discorsi fossero soltanto il frutto della nostalgia e del rammarico di non essere più giovani.
Pensavo che fosse soltanto banale retorica, mai avrei creduto che anch’io un giorno li avrei fatti.
Ora che purtroppo anch’io ho imboccato il viale del tramonto mi ritrovo a pensare, anche se non lo dico, che sì, forse “Si stava meglio prima…”; e allora mi domando se non stia “rincoglionendo!”
Quando però mi metto a riflettere con più attenzione mi convinco che, effettivamente, molte cose erano meglio prima.
Una era senza dubbio molto meglio prima: i rapporti umani che esistevano fra conoscenti e abitanti dello stesso quartiere.
Probabilmente ci accomunava la grande miseria (parlo del primo dopoguerra).
Ricordo che nel casamento dove abitavo, le massaie, allora si chiamavano così, si scambiavano i favori ed anche il cibo e questo avveniva con grande naturalezza, senza alcun ritegno, ritenendo evidentemente logico aiutarsi l’un l’altra.
Altra cosa positiva di allora, a mio parere, era accontentarsi della nostra condizione, senza guardare chi aveva più di noi.
Noi ragazzi eravamo felici quando i nostri genitori potevano darci qualche lira; subito correvamo dal giornalaio a comprare le figurine dei calciatori e dei ciclisti.
Iniziava allora il mercato dei “doppioni”: passavamo delle ore a fare gli scambi e quando avevamo una figurina “rara” il prezzo saliva.
Alcuni di quei ragazzi da grandi hanno intrapreso l’attività di commercianti e chissà se lo scambio di figurine e giornalini, praticato da piccoli, non gli sia servito da scuola!
A questo punto non posso non pensare alla differenza con i ragazzi di oggi, ai quali non manca niente, alcuni di loro hanno non uno ma due telefonini e non sono mai contenti.
Si annoiano sempre, mentre noi inventavamo continuamente nuovi giochi fatti di niente e non sapevamo cosa fosse la noia.
Se proprio non avessimo saputo cosa fare c’era sempre la caccia alle lucertole.
E la Pescia ci aspettava per fare alle sassate con i “domaioli” o chiappare anguille e ranocchi.
Altra cosa che ritengo fosse meglio prima era l’aspettativa e l’entusiasmo che avevamo per il futuro. Venivamo dal periodo bellico, avevamo passato dei momenti orribili; il futuro non poteva che essere migliore, molto migliore.
E noi tutti ci rimboccammo le maniche perché ciò avvenisse!
E difatti avvenne e in tutto il mondo lo chiamarono “il miracolo italiano”.
Se penso a qual è oggi la prospettiva che hanno i giovani che devono formarsi una famiglia, con la precarietà del lavoro, le pretese sempre crescenti instillate dal
consumismo imperante, basta vedere gli spot televisivi dai quali sembra che abbiamo bisogno solo di nuovi e più sofisticati cellulari “tuttofare” e di auto sempre più fantascientifiche; ebbene se penso a tutto questo mi viene proprio da dire:Si! ”Si stava meglio prima…”
Ma forse sto proprio rincoglionendo!!!!!!!!!!
Romano Zanobini
Sensazioni, emozioni
Magia di un antico gioco
trasparenti, leggere piume
prigioniere del vento primaverile
vanno,
stamani,
nell’aria fresca del mattino,
le bolle di sapone,
dai tenui, ialini colori dell’arcobaleno.
Salgono, scendono,
si uniscono, si separano,
si annullano, in un delicato gioco.
Occhi estasiati
seguono la loro dolce, quieta danza.
Piccole,
grandi,
eteree,
fragili bolle di sapone;
sogni di ieri,
sensazioni, emozioni
che si disperdono in un nulla
dai magici, vitrei colori.
Sira Michelotti
trasparenti, leggere piume
prigioniere del vento primaverile
vanno,
stamani,
nell’aria fresca del mattino,
le bolle di sapone,
dai tenui, ialini colori dell’arcobaleno.
Salgono, scendono,
si uniscono, si separano,
si annullano, in un delicato gioco.
Occhi estasiati
seguono la loro dolce, quieta danza.
Piccole,
grandi,
eteree,
fragili bolle di sapone;
sogni di ieri,
sensazioni, emozioni
che si disperdono in un nulla
dai magici, vitrei colori.
Sira Michelotti
La supplente
Era una calda giornata. Erano gli ultimi di marzo. Un po’ presto per essere caldo però. Il sole era magnifico. La via era bianca di polvere. Da come picchiava su il sole si sarebbe detto giugno. Ma avevamo ancora il soprabito e la sciarpa al collo. Non poteva essere giugno. Però la sciarpa dava noia. Accidenti che strada lunga. Senza nemmeno dieci centimetri quadrati d’ombra. Già i centimetri quadrati sapranno trovare l’area quei ragazzi? Prendere una classe a mezz’anno è sempre una noia. Per una settimana almeno non sai cosa fare. Quando andavo a scuola pensavo con invidia agli insegnanti mi sembravano liberi, senza responsabilità, credevo che se una mattina pioveva potessero anche rimanere comodamente a letto, e mi sembrava che non lavorassero gran che, in ogni modo senza fatica. Accidenti che fatica! Quante svolte ancora prima del paese? Che sole! La strada è maledettamente piena di polvere. Le ruote della bicicletta lasciano un fumetto continuo. Fumetto? Mai letto un fumetto. Non serve. Al massimo li puoi guardare. Si crederanno persone intelligenti quelli che li fanno i fumetti? Sarebbero intelligenti se credessero che i fumetti hanno valore solo per loro e soltanto perché ci guadagnano. Sarebbero intelligenti e realisti. Viva la verità! E’ il motto del realismo? Forse è meglio viva la realtà. Però che differenza c’è fra realtà e verità? Ecco la realtà è materiale, no meglio: la realtà riguarda le cose e i fatti e tutto ciò che è concreto e la posizione esatta di tutto ciò che è concreto rispetto all’altro concreto. La verità invece riguarda l’essenza delle cose. No, che c’entra l’essenza delle cose. Con questo sole non mi riesce più ragionare. Si, l’essenza c’entra. La verità è l’essenza della realtà, l’astrazione della realtà. La verità è l’idea della realtà. L’una è concreta e l’altra astratta. Uffa, questo sole è maledettamente concreto e anche la polvere e il chilometraggio. No, il chilometraggio è astratto, sono i chilometri concreti. Bellina quella lucertola sul muro. Sta al sole. Hanno un’aria cosi timida le lucertole! E sono belline, nel loro genere si capisce e fanno una bella vita. Se c’è il sole al sole e se piove in un buchetto ad aspettare che smetta. E mangiare? Ma, si arrangeranno. Non so perché ma la devo prendere la lucertola. Sono stanca, ho sete. Meno male la c’è un po’ di ombra. Ecco laggiù ci deve essere il paese. Si. Si. E’ il paese. Meno male. Però le lucertole sono molto carine, e timide, si timide, scappano sempre, sono l’equivalente delle mammole, anche le mammole sono timide, si dice che siano timide però non scappano. No, come vuoi che scappino, però si nascondono tra l’erba. Allora hanno paura. No, sono timide. Timide o hanno paura? La timidezza è una cosa, la paura un’altra. Io per esempio sono timida ma non ho paura. O ho paura e non sono timida. Non mi importa un accidente di sapere ora come sono. Però ci voglio pensare. Serve sempre conoscersi, si sa dove si può arrivare e non si fa mai il passo più lungo della gamba. Mi fanno male le gambe accidenti: pedalo, pedalo. Oh! Ecco il paese. La scuola deve essere quella lì. Ci sono i ragazzi. Si è la scuola. Chissà se questi ragazzi vanno a caccia di lucertole. Forse si. E le bimbe cercheranno le mammole. Mammole e lucertole. Bimbe e bimbi. Buongiorno ragazzi!
Etheridge Rosa
Fin da piccola ho sempre amato gli animali
La bacchetta magica color lillà
C’era una volta o meglio tanti e tanti anni fa un castello con cento stanze. Il castello sorgeva su un’antica collina, la “Collina degli agrumi” e dominava con il suo grigio aspetto tutta la vallata.
Nel castello vivevano, ormai da secoli, i discendenti del conte Sigfrido, però non erano felici, perché un’antica maledizione gravava sulla loro testa: nessuno avrebbe potuto vivere felice con la sposa,perché questa, giunta al quinto anno di matrimonio, mentre aspettava il secondo figlio maschio, avrebbe trovato la morte cadendo dalla finestra della centesima stanza, posta sotto la grande torre, che dominava la valle. Nel castello viveva anche la strega Lucrezia, cattiva donna dall’aspetto pauroso: aveva gli occhi di rospo, unghie di falco, naso aquilino, denti di cavallo e gambe di lepre, quest’ultime, infatti, le permettevano di essere veloce e scattante. I suoi abiti erano sempre sporchi per i filtri magici che preparava ogni giorno. Quando i suoi filtri bollivano lei cantava questa filastrocca:
“ Salta ranocchia,
metti la crocchia,
tira il cavallo,
usa il sangue di gallo,
lessa un pipistrello,
metti un fiore all’occhiello,
e il mondo sarà bello;
se l’incantesimo avverrà,
la sposa dalla centesima stanza cadrà”
Gli animali di Lucrezia il gatto TeoTeone dal nero e lucido pelo, il pipistrello Federico, il rospo Verdino e il serpente Striscia l’ascoltavano con meraviglia e ballavano fra di loro, aprendo e chiudendo il nero grande ombrello che Lucrezia usava per raccogliere i fumi dei suoi magici filtri.
Nella prima stanza del castello, nella cantina ricca di profumo di vino nuovo e formaggio stagionato, viveva la fata Cloettina , dall’aspetto grazioso e allegro: era piccola e tondetta, aveva capelli di seta fine, occhi di mare e bocca di ciliegia matura. Cloettina possedeva una piccola bacchetta magica di color lillà e quando la agitava faceva sempre una piroetta girando velocemente per tre volte su se stessa. Il suo amico del cuore era il topino Frù Frù, che spesso, quando Cloettina pranzava si riempiva la piccola pancia di saporito formaggio. La sua dama di compagnia era coccinella Melissa che aveva il compito di tenere in ordine tutti gli abiti di Cloettina soprattutto la mantella beige. Cloettina era molto affezionata alla sua mantella, fatta di pura lana beige e conservata dentro il grande enorme armadio, che racchiudeva le divise degli antichi avi del castello. Quando Cloettina indossava la sua mantella, all’improvviso diventava invisibile e nessuno poteva notarla; Frù Frù e Melissa erano gli unici che conoscevano il segreto della loro buona fatina.
Il conte Andrea e la moglie Albina, felici e innamorati l’uno dell’altro, stavano aspettando il secondo figlio, che avrebbero chiamato Sigfrido: mancavano pochi giorni alla sua nascita. Nel castello c’erano grandi preparativi, la servitù puliva e ripuliva le cento stanze e ogni stanza era linda fresca e profumata per accogliere il lieto evento. Il principe Andrea, in cuor suo, temeva per la sua propria sposa, e faceva vigilare ogni stanza dalle guardie del castello. Ecco, una sera, all’improvviso, arrivarono le doglie e, dopo alcune ore, nacque Pupino, un conticino dagli occhi vivaci e dall’aspetto nobile, i suoi vagiti riempirono di gioia gli abitanti del castello. La mamma alcuni giorni dopo il parto, cominciò a dare segni di pazzia, perché la crudele Lucrezia si era inoltrata nella sua stanza, facendole bere poco alla volta, piccole porzioni, del suo più potente filtro magico. Cloettina, la buona fata, protettrice di Albina, indossò la sua beige mantella e aiutata da Frù Frù e da Melissa prese la bacchetta magica e si diresse nella stanza di Albina. Il suo aspetto era invisibile, giunta nella stanza fece rullare su se stessa la magica bacchetta di color lillà e cambiò l’ultimo terribile, nocivo filtro, in una spremuta di arance e mandarini limoni e altri vari agrumi Albina bevve velocemente, tutto di un fiato questa bomba di vitamine e subito scomparvero i segni di pazzia.
L’ultima velenosa pozione, nascosta sotto la beige mantella fu portata dalla buona fata Cloettina sulla tavola, ben apparecchiata, di Lucrezia e versata dentro la brocca di vino rosso, fatto di uve scelte. Lucrezia, affamata e assetata, bevve in tutta fretta il vino rosso e subito incominciò a dare fuori di senno. Il gatto nero TeoTeone con il pelo ritto, la schiena arcuata e gli occhi verdi, dalle pupille dilatate, andò a rifugiarsi sotto il letto, il pipistrello Federico perse l’orientamento e andò a sbattere nel vecchio lampadario di ferro battuto che pendeva dal soffitto, il rospo Verdino gettò fuori dalla bocca un liquido bianco e vischioso e il serpente Striscia strisciò fino alla pentola di filtri magici e vi si attorcigliò. Lucrezia impazzita, corse fino alla centesima finestra e cadde a gambe all’aria sul ponte lavatoio, rimbalzò una, due, tre volte, fino a precipitare nella gelida acqua del fossato, ricca di veronesi serpenti.
Il conte Andrea, la moglie Albina ed i loro figlioletti, da allora, vissero felici e contenti e la fata Cloettina si prese cura di loro e con la beige mantella e la bacchetta magica color lillà protesse la famiglia di Albina. Frù Frù, il delizioso topino bianco e Melissa la coccinella tutto fare rimasero sempre con la loro buona e generosa fata Frù Frù continuò a fare scorpacciate di spartito e stagionato formaggio, mentre Melissa tenne ben ordinato ogni abito della sua cara fata, ma soprattutto ebbe gran cura della beige mantella e della bacchetta magica color lillà.
giovedì 10 aprile 2008
Ritorno dalla prigionia
Destinato di leva al 6° reggimento artiglieria C.A. di Modena il 12/03/1940. Fu formato il 15° reggimento di C. A. e mandato a Pietra Ligure il 28/06/1940, successivamente mi condussero sul fronte occidentale (precisamente a Monte Terca sul torrente Barbaira) dove vi rimasi fino alla resa della Francia.
Il 17/09/1940 mi imbarcai a Napoli con destinazione Libia e lo sbarco avvenne a Tripoli dopo tre giorni dall’imbarco il 20/09/1940.
Il reggimento sotto il comando del Tenente Colonnello Vintor prese posizione a Tobruch, li venimmo catturati dalle forze armate alleate il giorno 21/01/1941 (data della capitolazione e inizio della prigionia).
Successivamente, a causa della mia malattia, fui ricoverato presso l’ospedale militare sul Canale di Suex dove vi rimasi per circa un mese. In seguito mi trasferirono nel campo prigionieri assegnandomi il numero di matricola 37061. Dopo alcuni mesi di permanenza in alcuni campi sempre sul canale di Suex a Ismaelia fui portato con altri 800 prigionieri in Sudafrica nella località Zonderwatere.
La navigazione verso Napoli fu lunga perché la nave continuava a seguire le rotte di guerra per evitare le mine inesplose disperse nel mare. Una volta sbarcato a Napoli il viaggio proseguì verso Roma dove venni ospitato da parenti. Il 21/05/1946 ricevetti la licenza straordinaria con un assegno di £ 50.000.
Il viaggio in treno da Roma a Firenze fu caratterizzato da un episodio particolare: mio nonno, insieme ad altri prigionieri, non avevano il biglietto da mostrare. Al momento in cui passò il controllore reclamandolo si accese una discussione che sfociò nell’affermazione di un prigioniero: “ Se continui ti buttiamo fuori dal finestrino!”. Tutto si concluse grazie all’intervento di un passeggero il quale fece notare che erano prigionieri di guerra.
Manfredo Silvestri
(nonno di Matteo)
Il 17/09/1940 mi imbarcai a Napoli con destinazione Libia e lo sbarco avvenne a Tripoli dopo tre giorni dall’imbarco il 20/09/1940.
Il reggimento sotto il comando del Tenente Colonnello Vintor prese posizione a Tobruch, li venimmo catturati dalle forze armate alleate il giorno 21/01/1941 (data della capitolazione e inizio della prigionia).
Successivamente, a causa della mia malattia, fui ricoverato presso l’ospedale militare sul Canale di Suex dove vi rimasi per circa un mese. In seguito mi trasferirono nel campo prigionieri assegnandomi il numero di matricola 37061. Dopo alcuni mesi di permanenza in alcuni campi sempre sul canale di Suex a Ismaelia fui portato con altri 800 prigionieri in Sudafrica nella località Zonderwatere.
La navigazione verso Napoli fu lunga perché la nave continuava a seguire le rotte di guerra per evitare le mine inesplose disperse nel mare. Una volta sbarcato a Napoli il viaggio proseguì verso Roma dove venni ospitato da parenti. Il 21/05/1946 ricevetti la licenza straordinaria con un assegno di £ 50.000.
Il viaggio in treno da Roma a Firenze fu caratterizzato da un episodio particolare: mio nonno, insieme ad altri prigionieri, non avevano il biglietto da mostrare. Al momento in cui passò il controllore reclamandolo si accese una discussione che sfociò nell’affermazione di un prigioniero: “ Se continui ti buttiamo fuori dal finestrino!”. Tutto si concluse grazie all’intervento di un passeggero il quale fece notare che erano prigionieri di guerra.
Manfredo Silvestri
(nonno di Matteo)
Ricordi
CARI RICORDI
I ricordi del mio passato sono numerosi.
Preferisco ricordare quelli belli perché mi sono rimasti ben impressi nella memoria e
li ricordo anche con molta nostalgia. Io abitavo e abito tuttora nella periferia di
Pescia, quindi i nostri giochi erano legati al luogo e all’ambiente in cui si viveva.
Posso quindi affermare, che ogni momento di vita non è mai uguale a quello di
un’altra persona. Lo stesso episodio, infatti, è vissuto da ognuno, in maniera diversa, anche se il soggetto è lo stesso.
Negli anni che andavano dal ‘57 al ‘61 ( il periodo della scuola elementare) il
divertimento di noi ragazzini di periferia era quello di ritrovarsi in un campo
adiacente alla borgata dove noi abitavamo.Dopo aver svolto i compiti della scuola
elementare, si trascorrevano i pomeriggi giocando liberi e sfogando tutta la nostra
fantasia in quel campo vicino alle case. Eravamo piccoli e quindi si facevano dei
giochi innocenti di gruppo. Si giocava a nascondino, a fazzoletto, a mosca cieca, a
mondo, a palla a volo, ai ciottolini, si costruiva l’aquilone, si correva per vedere
chi arrivava prima ( anche a gamba zoppa ), si facevano i girotondi, si cantava
Madama Doré.
Spiegazione del gioco(Madama Doré): Le bambine stavano tutte in circolo. Al
centro c’era un bambino e una bambina.
Il bambino cantando: “Oh, quante belle figlie madama Doré
Oh quante belle figlie!”
La bambina ( Madama Doré): “ Sono belle e me le tengo.”
Il bambino: “ Il re ne comanda una Madama Doré, il re ne comanda una.”
La regina : “ Che cosa ne vuol fare.”
Il bambino: “ La vuole maritare Madama Doré. La vuole maritare.”
La regina: “Scegli scegli la più bella!”
Il bambino prendendo la mano di una bambina: “ La più bella l’ho già scelta
Madama Doré, la più bella l’ho già scelta.”
Il gioco finiva così.
Vorrei far notare che in quei periodi i genitori ci permettevano di giocare tutti
assieme, maschi e femmine, senza farsi troppi problemi in quanto eravamo
abbastanza piccoli.
La cosa è cambiata molto negli anni a venire, quando noi bimbe, crescendo non
avevamo più la libertà di giocare come prima con i maschi. Nel periodo della scuola
media infatti, nella mia frazione c’era un istituto di suore, quindi, io come altre
bambine fui mandata da queste suore per trascorrere i pomeriggi, in modo che i
genitori potessero lavorare tranquilli. Anche in questi anni i miei ricordi sono molto belli.Per noi grandicelle la Madre Superiora, aveva organizzato un laboratorio dove ci era insegnato l’arte del ricamo. A me piaceva stare nel gruppo e creare centrini e piccoli lavoretti che io portavo con orgoglio a casa dai genitori. Oltre a questa attività si cantava e si preparavano recite che poi erano rappresentate con la presenza dei genitori.
Inoltre ogni Domenica mattina si cantava la Messa con la suora dell’asilo.Con il
trascorrere del tempo,però, anche questa parentesi si chiuse.Infatti negli anni che
vanno dal ‘66 al ‘71, frequentavo la scuola superiore e quindi il divertimento, in
questo periodo dell’adolescenza, cambiò molto. Le ore di svago erano molto più
limitate a causa dello studio e quindi la Domenica era l’unico giorno in cui si poteva incontrare le nostre amiche. Nei primi anni di questa mia adolescenza ricordo che i miei genitori mi permettevano di uscire e di ritornare da sola ad orari ben precisi e sempre nel pomeriggio della domenica. Avevo 15-16 anni ed io con le mie amiche prendevamo le nostre biciclette e andavamo al cinema a Pescia.
Si, perché, noi di periferia all’epoca ci si spostava tutti in bicicletta, compreso
l’andare a scuola. Arrivati a Pescia , le bici si depositavano da un signore che si
chiamava Mino, che dietro compenso ce le guardava e all’occorrenza le accomodava
anche. Ritornando al cinema, ricordo di aver visto alcuni bei film. Infatti a Pescia
c’era il Cinema Splendor e il Cinema Garibaldi che erano molto frequentati.
Ricordo che all’ingresso, si acquistavano i pop corn e i semi di zucca salati per
mangiarli durante lo spettacolo. Il film che mi è rimasto più impresso è stato “ Via col vento” e poi un documentario sulla Polinesia (non ricordo il titolo) dove due ragazzi come noi esploravano quei luoghi con bellissime spiagge e fondali meravigliosi. Rimasi talmente colpita da quelle immagini, che per molto tempo hanno rappresentato per me un sogno impossibile, ma bellissimo. Questo periodo, però, fu anche quello in cui nacque l’era del “beat” ed anche il movimento giovanile di protesta “ Figli dei fiori”.
Noi ragazzine eravamo molto condizionate da queste nuove idee anticonformiste,
così si chiuse la parentesi del cinema e si aprì quella del ballo.
I nostri idoli ,infatti erano i Beatles e i Rolling Stones . I primi rappresentavano la musica un po’ moderata, i secondi, la più scatenata. Quello che ci attirava molto era la loro trasgressione, con i loro capelli lunghi e il loro strano abbigliamento,tanto che i nostri diari scolastici erano pieni delle loro foto. Le Domeniche quindi si trascorrevano nelle sale da ballo. Inizialmente le mie prime uscite, di quel periodo erano sempre accompagnate dalla mamma, che in compagnia di altre stava seduta al tavolo del bordo pista forse per controllare,forse perché era l’usanza del momento (il buon costume) o forse perché per l’epoca eravamo ancora un po’ piccole. Ricordo che noi ragazze, sedute accanto alla mamma aspettavamo che ci fosse chiesto il ballo da qualche ragazzo. Finita la musica si ritornava educatamente al tavolo. Io ricordo, però che mi emozionavo molto sia perché erano le prime volte che ballavo con i ragazzi, sia perché c’era la visione della mamma. Come ho accennato prima però, erano gli anni della protesta giovanile (figli dei fiori) quindi il modo di divertirsi cambiò molto, sia perché anch’io stavo crescendo, sia perché quelle nuove idee condizionarono anche un po’ i genitori che diventarono più permissivi. Così, le mamme rimasero a casa mentre noi ragazze di 18-19 anni si poteva uscire da sole, pomeriggio e sera. Erano gli anni ‘70. Pescia però, oltre al cinema,offriva poco, così si frequentavano le sale da ballo fuori della nostra città. Questo è un po’ la storia del divertimento della mia gioventù I ricordi riferiti a questi episodi sono per me molto preziosi perché mi permettono di confrontare la realtà di oggi con quella di ieri e di constatare come cambia il mondo.
Laura D'Ulivo
I ricordi del mio passato sono numerosi.
Preferisco ricordare quelli belli perché mi sono rimasti ben impressi nella memoria e
li ricordo anche con molta nostalgia. Io abitavo e abito tuttora nella periferia di
Pescia, quindi i nostri giochi erano legati al luogo e all’ambiente in cui si viveva.
Posso quindi affermare, che ogni momento di vita non è mai uguale a quello di
un’altra persona. Lo stesso episodio, infatti, è vissuto da ognuno, in maniera diversa, anche se il soggetto è lo stesso.
Negli anni che andavano dal ‘57 al ‘61 ( il periodo della scuola elementare) il
divertimento di noi ragazzini di periferia era quello di ritrovarsi in un campo
adiacente alla borgata dove noi abitavamo.Dopo aver svolto i compiti della scuola
elementare, si trascorrevano i pomeriggi giocando liberi e sfogando tutta la nostra
fantasia in quel campo vicino alle case. Eravamo piccoli e quindi si facevano dei
giochi innocenti di gruppo. Si giocava a nascondino, a fazzoletto, a mosca cieca, a
mondo, a palla a volo, ai ciottolini, si costruiva l’aquilone, si correva per vedere
chi arrivava prima ( anche a gamba zoppa ), si facevano i girotondi, si cantava
Madama Doré.
Spiegazione del gioco(Madama Doré): Le bambine stavano tutte in circolo. Al
centro c’era un bambino e una bambina.
Il bambino cantando: “Oh, quante belle figlie madama Doré
Oh quante belle figlie!”
La bambina ( Madama Doré): “ Sono belle e me le tengo.”
Il bambino: “ Il re ne comanda una Madama Doré, il re ne comanda una.”
La regina : “ Che cosa ne vuol fare.”
Il bambino: “ La vuole maritare Madama Doré. La vuole maritare.”
La regina: “Scegli scegli la più bella!”
Il bambino prendendo la mano di una bambina: “ La più bella l’ho già scelta
Madama Doré, la più bella l’ho già scelta.”
Il gioco finiva così.
Vorrei far notare che in quei periodi i genitori ci permettevano di giocare tutti
assieme, maschi e femmine, senza farsi troppi problemi in quanto eravamo
abbastanza piccoli.
La cosa è cambiata molto negli anni a venire, quando noi bimbe, crescendo non
avevamo più la libertà di giocare come prima con i maschi. Nel periodo della scuola
media infatti, nella mia frazione c’era un istituto di suore, quindi, io come altre
bambine fui mandata da queste suore per trascorrere i pomeriggi, in modo che i
genitori potessero lavorare tranquilli. Anche in questi anni i miei ricordi sono molto belli.Per noi grandicelle la Madre Superiora, aveva organizzato un laboratorio dove ci era insegnato l’arte del ricamo. A me piaceva stare nel gruppo e creare centrini e piccoli lavoretti che io portavo con orgoglio a casa dai genitori. Oltre a questa attività si cantava e si preparavano recite che poi erano rappresentate con la presenza dei genitori.
Inoltre ogni Domenica mattina si cantava la Messa con la suora dell’asilo.Con il
trascorrere del tempo,però, anche questa parentesi si chiuse.Infatti negli anni che
vanno dal ‘66 al ‘71, frequentavo la scuola superiore e quindi il divertimento, in
questo periodo dell’adolescenza, cambiò molto. Le ore di svago erano molto più
limitate a causa dello studio e quindi la Domenica era l’unico giorno in cui si poteva incontrare le nostre amiche. Nei primi anni di questa mia adolescenza ricordo che i miei genitori mi permettevano di uscire e di ritornare da sola ad orari ben precisi e sempre nel pomeriggio della domenica. Avevo 15-16 anni ed io con le mie amiche prendevamo le nostre biciclette e andavamo al cinema a Pescia.
Si, perché, noi di periferia all’epoca ci si spostava tutti in bicicletta, compreso
l’andare a scuola. Arrivati a Pescia , le bici si depositavano da un signore che si
chiamava Mino, che dietro compenso ce le guardava e all’occorrenza le accomodava
anche. Ritornando al cinema, ricordo di aver visto alcuni bei film. Infatti a Pescia
c’era il Cinema Splendor e il Cinema Garibaldi che erano molto frequentati.
Ricordo che all’ingresso, si acquistavano i pop corn e i semi di zucca salati per
mangiarli durante lo spettacolo. Il film che mi è rimasto più impresso è stato “ Via col vento” e poi un documentario sulla Polinesia (non ricordo il titolo) dove due ragazzi come noi esploravano quei luoghi con bellissime spiagge e fondali meravigliosi. Rimasi talmente colpita da quelle immagini, che per molto tempo hanno rappresentato per me un sogno impossibile, ma bellissimo. Questo periodo, però, fu anche quello in cui nacque l’era del “beat” ed anche il movimento giovanile di protesta “ Figli dei fiori”.
Noi ragazzine eravamo molto condizionate da queste nuove idee anticonformiste,
così si chiuse la parentesi del cinema e si aprì quella del ballo.
I nostri idoli ,infatti erano i Beatles e i Rolling Stones . I primi rappresentavano la musica un po’ moderata, i secondi, la più scatenata. Quello che ci attirava molto era la loro trasgressione, con i loro capelli lunghi e il loro strano abbigliamento,tanto che i nostri diari scolastici erano pieni delle loro foto. Le Domeniche quindi si trascorrevano nelle sale da ballo. Inizialmente le mie prime uscite, di quel periodo erano sempre accompagnate dalla mamma, che in compagnia di altre stava seduta al tavolo del bordo pista forse per controllare,forse perché era l’usanza del momento (il buon costume) o forse perché per l’epoca eravamo ancora un po’ piccole. Ricordo che noi ragazze, sedute accanto alla mamma aspettavamo che ci fosse chiesto il ballo da qualche ragazzo. Finita la musica si ritornava educatamente al tavolo. Io ricordo, però che mi emozionavo molto sia perché erano le prime volte che ballavo con i ragazzi, sia perché c’era la visione della mamma. Come ho accennato prima però, erano gli anni della protesta giovanile (figli dei fiori) quindi il modo di divertirsi cambiò molto, sia perché anch’io stavo crescendo, sia perché quelle nuove idee condizionarono anche un po’ i genitori che diventarono più permissivi. Così, le mamme rimasero a casa mentre noi ragazze di 18-19 anni si poteva uscire da sole, pomeriggio e sera. Erano gli anni ‘70. Pescia però, oltre al cinema,offriva poco, così si frequentavano le sale da ballo fuori della nostra città. Questo è un po’ la storia del divertimento della mia gioventù I ricordi riferiti a questi episodi sono per me molto preziosi perché mi permettono di confrontare la realtà di oggi con quella di ieri e di constatare come cambia il mondo.
Laura D'Ulivo
IL CINEMATOGRAFO
Negli anni 50-60 tanti divertimenti come ci sono oggi non c’erano. Io abitavo e abito in un paese a tre Km da Pescia e mentre in città c’erano più svaghi a Pietrabuona c’era soltanto il bar di Mauro ed era il ritrovo tanto della montagna quanto dei pesciatini. Quando ci si trovava con qualche soldino in tasca si andava al cinema a Pescia. Per i ragazzi era adatto il “Pidocchino” perché si spendeva poco e davani i film dei cow-boy. Per me era il cinema preferito perché nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo uscivo e andavo dallo zio Gaeta dove ci trovavo un bel panino imbottito.
Dopo il “Pidocchino”, dove non si spendeva tanto, c’era il cinema “Garibaldi” e poi il cinema “Splendor” che per dire il vero era anche il più bello.
La mamma all’epoca mandava la lambretta e quando non era troppo freddo andavamo al cinema a Pescia con quella.
Lo spettatore più assiduo di casa mia era il nonno Alberto; lui tutte le domeniche d’inverno andava al cinema: al primo spettacolo dormiva e il secondo lo guardava così faceva l’ora per prendere il pullman che lo riportava a casa.
Infatti, per andare a Pescia prendevamo l’”autobusse” così veniva chiamato.
L’autobusse faceva il giro di tutti i paesini della montagna e quando arrivava a Pietrabuona era talmente pieno che non importava reggersi.
A fare il biglietto c’era la Mena, moglie di Angiolino (lui era l’autista) e così c’era il detto: “ Arriva l’autobusse della Mena che anche oggi è piena”.
Certo quando si arrivava a Pescia in Piazza XX Settembre si faceva spettacolo, tutte quelle persone che scendevano dall’autobusse e i signori pesciatini dicevano:” Arrivano i montanini” detto anche con un certo disprezzo. A dire il vero anche se siamo nel 2000 in effetti dal Del Magro in su siamo considerati cittadini di serie B, ma questo è un altro discorso.
Un fatto che mi torna alla mente ed è quello di quando al cinema Splendor venne proiettato il film “I dieci Comandamenti”. Quella domenica fu deciso di andare tutti al cinema, cioè tutti e nove ( sì perché la mia famiglia era composta proprio da nove persone fra nonni, zie e cugini). Bene, per prima cosa furono preparati i panini imbottiti perché la partenza era stata stabilita per mezzogiorno e mezzo per essere sicuri di trovare il posto al cinema e non potevamo prendere l’autobusse perché saremmo arrivati troppo tardi. Così ci fu un altro inghippo, con che mezzo si andava? Per fortuna vicino a noi abitava Zelio che possedeva un pulmino a sei posti e, alla meglio, entrammo tutti lì.
Comunque fu una giornata indimenticabile e quel film è rimasto sempre nei miei ricordi.
Brunetta Pellegrini
Dopo il “Pidocchino”, dove non si spendeva tanto, c’era il cinema “Garibaldi” e poi il cinema “Splendor” che per dire il vero era anche il più bello.
La mamma all’epoca mandava la lambretta e quando non era troppo freddo andavamo al cinema a Pescia con quella.
Lo spettatore più assiduo di casa mia era il nonno Alberto; lui tutte le domeniche d’inverno andava al cinema: al primo spettacolo dormiva e il secondo lo guardava così faceva l’ora per prendere il pullman che lo riportava a casa.
Infatti, per andare a Pescia prendevamo l’”autobusse” così veniva chiamato.
L’autobusse faceva il giro di tutti i paesini della montagna e quando arrivava a Pietrabuona era talmente pieno che non importava reggersi.
A fare il biglietto c’era la Mena, moglie di Angiolino (lui era l’autista) e così c’era il detto: “ Arriva l’autobusse della Mena che anche oggi è piena”.
Certo quando si arrivava a Pescia in Piazza XX Settembre si faceva spettacolo, tutte quelle persone che scendevano dall’autobusse e i signori pesciatini dicevano:” Arrivano i montanini” detto anche con un certo disprezzo. A dire il vero anche se siamo nel 2000 in effetti dal Del Magro in su siamo considerati cittadini di serie B, ma questo è un altro discorso.
Un fatto che mi torna alla mente ed è quello di quando al cinema Splendor venne proiettato il film “I dieci Comandamenti”. Quella domenica fu deciso di andare tutti al cinema, cioè tutti e nove ( sì perché la mia famiglia era composta proprio da nove persone fra nonni, zie e cugini). Bene, per prima cosa furono preparati i panini imbottiti perché la partenza era stata stabilita per mezzogiorno e mezzo per essere sicuri di trovare il posto al cinema e non potevamo prendere l’autobusse perché saremmo arrivati troppo tardi. Così ci fu un altro inghippo, con che mezzo si andava? Per fortuna vicino a noi abitava Zelio che possedeva un pulmino a sei posti e, alla meglio, entrammo tutti lì.
Comunque fu una giornata indimenticabile e quel film è rimasto sempre nei miei ricordi.
Brunetta Pellegrini
Lettera a un amico
Pescia, 23/10/98
Caro Maurizio,
come ti avevo promesso oggi mi sono deciso di raccontarti le cariche che ho avuto nella mia vita politica e sindacale.
Alcune premesse: sono tornato da fare il soldato (guerra e prigionia) 15 novembre 1941-31 luglio 1946.
Sono tornato a lavorare in concia San Lorenzo a Reggio dopo un mesetto. Lì avevo già lavorato dal 22 giugno 1936 a metà del 1940. Disoccupato ho fatto domande per partire volontario in Marina e la Pubblica Sicurezza, respinte entrambe (così mi hanno detto) perché facevo il corso di …. Nel quadro dei vari corsi … … previsti per i giovani in quei tempi.
Ho lavorato per qualche mese, come manovale alle … a Pistoia, fine ’40 principio 1941.
Inoltre, mentre vi era un tentativo di riapertura della conceria, ho lavorato dell’altro tempo.
La mattina che dovevo andare al Sindacato fascista a fare la cartolina per il rientro regolare, il postino Pietrino mi ha consegnato quella della partenza da militare, destinazione 6 … Bologna.
Come ti ho detto sopra in conceria sono rientrato fine agosto. A settembre ’46 con mia sorpresa la paga per me e altri due nuovi era stata ridotta alla metà per sei mesi perché dovevamo rimparare il mestiere. Lo … (meno di un manovale) … e la spinta che mi spronò a diventare un sindacalista.
Per quanto riguarda l’iscrizione al P.C.I. la maturazione è stata lunga: mi sono iscritto insieme a Cesarina dopo che ci siamo sposati il 20 aprile 1947.
È stata lunga perché la maturazione, si potrebbe dire elementare, è formata da diversi fattori. Primo in famiglia, mio padre e mia madre erano sentimentalmente antifascisti, la miseria era forse il fattore trainante; parlavamo in casa, si sentivano le radio clandestine, durante la guerra di Spagna e la II guerra mondiale. Ma credo che tutto si fermasse lì. Parlare di socialismo nello spogliatoio della conceria era, e con coraggio, un .. di operaio furente dei padroni e poi poveretto … ….
Anche Ettorino .., quando si faceva i famosi nastri per la Piazza Mazzini mi spiegava cos’era il comunismo e canticchiava “bandiera rossa”.
Altre indicazioni le ho avute nel campo di concentramento 4 B.O.D. vicino a … nel canale di Suez, un amico prigioniero come me dopo una normale discussione mi disse allontanandosi indispettito: “tu parli come un comunista”. E una grossa sorpresa l’ebbi dopo il 25 luglio una … indiana mi disse “Mussolini caput” e il giorno dopo sopra il deposito dell’acqua apparve una bandiera rossa.
La mia sorpresa poi fu quando gli inglesi si mobilitarono per levarla.
Ed io piansi; pensai: «perché la levano se sono alleati contro il nazifascismo?»
Ma l’imbevitura portante verso quell’idea ci veniva data dall’ascolto di Radio Londra che trasmetteva i bollettini di guerra dove risaltava sicuramente la figura di Stalin per l’avanzata delle truppe dell’Armata Rossa verso Berlino.
Qui ti voglio raccontare un fatto interessante. Gli inglesi ci chiesero, dopo la caduta del fascismo, di diventare da prigionieri a prigionieri collaboratori. Questa scelta fu sofferta da me e tanti altri.
Eravamo 500 in quel campo e il primo giorno … pochi, poi la stragrande maggioranza nei giorni successivi fece quella scelta di passare a collaboratori. Anch’io benché quello che ti ho raccontato sopra dimostrasse che avevo una tendenza al cambiamento. Benché avessi visto le brutture del fascismo da civile e da militare… Negli inquadramenti prima di sciogliersi non si gridava più “viva il Duce!”, ma solo “viva il re!”. Sarà stato anche il patriottismo che ci ostacolava a fare quel passo.
Il 15 marzo 1945 i collaboratori li portarono a Napoli e poi a Taranto. Lavoratori del posto scaricavano navi piene di grano. Qui visitammo una sezione di Taranto vecchia io e un mio amico di Comacchio, volevamo le tessere di iscrizione; non ce le dettero perché eravamo militari.
Allora sottoscrivemmo per l’Unità. Una sera in una piazza parlava Giuseppe di Vittorio: non lo conoscevo ancora, ma poi è un’altra storia.
Cariche sindacali:
Segretario della commissione interna
Segreteria Camerale
Comitato Federale
Segretario dei chimici
Commissione ufficio del lavoro
Commissione commercio fisso
Segretario della Lega Conciatori
Delegato al III Congresso della C.G.I.L. 1952 a Napoli
Delegato per la Camera del Lavoro di Pistoia al Piano del Lavoro a Milano.
Incontro con Giuseppe di Vittorio: “compagno andiamo a lavorare” disse con un grosso sorriso (Milano 1950).
… in vari punti d’Italia: Milano, Bologna, Varese, Firenze, Pisa, Roma.
A Firenze incontro di Segretari Provinciali con Luciano Lanu: mi ricordo che gli posi una domanda “se sono i gruppi monopolistici che creano disagio alla classe operaia, allora perché usiamo gli stessi sistemi della piccola industria, scioperi ecc. e non cerchiamo di differenziare le lotte per vedere anche di crearsi degli alleati, visto che i gruppi monopolistici danneggiano anche la piccola industria?”. La risposta non la ricordo ma nel complesso fu negativa.
Queste annotazioni sono forse (fra le tante) fra le più importanti che ricordo, perché per raccontarle tutte ci vorrebbe che raccontassi le memorie della mia vita.
Per quanto riguarda le cariche che ho avuto nel P.C.I. di Pescia e di Pistoia, cerco di scrivere quelle che mi ricordo.
Cominciai al P.C.I. nella primavera del 1947: nello stesso anno fui ammesso al Comitato di Sezione e ci sono rimasto per circa 50 anni; sono uscito per mia richiesta. Volevo fare il semplice iscritto.
Segretario di Sezione, credo che fui nominato nel 1956 o 57 fino al 1970 (dove fui estromesso) credo dal 1956 perché al congresso provinciale fui nominato delegato all’ottavo congresso nazionale del partito.
Qui ti voglio raccontare un fatto che ho sempre mantenuto (quasi) segreto, forse un paio di persone lo sanno. Gliel’ho detto in questi ultimi anni e non mi ricordo a chi.
Ora dovrei farti una descrizione per renderti più consapevole di quell’atto, ma te lo descrivo in poche parole: nell’anno 1956 continuava la guerra fredda, le leggi liberticide di Scelba, i fascisti che avevano rialzato la testa, i fatti di Ungheria e il tentativo della Francia e dell’Inghilterra di conquistare il canale di Suez.
I padroni (ti scrivo come pensavo allora), specialmente i miei, erano diventati intolleranti e prepotenti. Cercavano loro che erano contro ogni manifestazione sindacale di farci fare lo sciopero per i fatti di Ungheria e noi dicemmo: “lo facciamo per l’invasione dei francesi e degli inglesi sul canale di Suez”. Situazione intollerante, l’ostilità fra me e loro si tagliava a fette.
Ed io dovevo chiedere il permesso di 10 giorni per recarmi a Roma al Congresso; impossibile, me lo avrebbero rifiutato.
Allora io 2-3 giorni prima della partenza per Roma, quando ero a lavare le vasche ed ero solo, picchiai con violenza un ginocchio contro il muretto della vasca e ne nacque un ematoma; andai all’ospedale dicendo che ero caduto lavorando e mi dettero, dopo le cure, 8 giorni di riposo. Così potei partire per il congresso.
Membro del Comitato provinciale del Partito credo per un triennio.
Delegato al XII Congresso Nazionale del Partito a Bologna nel 1969.
Sono stato nei vari comitati comunali di assistenza. Era, per la befana ai poveri, comitato per l’associazione degli alloggi provinciale e comunale.
Comitato comunale e intercomunale per le elezioni e rappresentante di lista per tantissimi anni.
Sono stato per sei anni vice giudice conciliatore.
Sono stato eletto consigliere comunale nel 1961 fino al 1987. nelle elezioni del 1970 fui votato per primo della lista del P.C.I.
Nel 1975-80 ho fatto l’assessore ai lavori pubblici a Firenze; poi, levati i lavori pubblici, mi assegnarono il turismo e lo sport.
La descrizione di questi 5 anni sarebbe una bella pagina di esperienza politica e istituzionale.
Ho avuto un’istruzione elementare (V elementare) anche se in certi periodi che andavo a scuola ho dovuto lavorare. Sono arrivato all’età di 24 anni e non avevo letto nemmeno un libro o un giornale.
Cominciai con l’Unità che in quel tempo riportava a puntate la Madre, credo di Borghi.
Lessi anche Gramsci, quando diceva che per combattere per la nostra causa c’era bisogno di tutta la nostra intelligenza. Istruirsi, istruirsi ancora.
Ho fatto il diffusore dell’Unità di cui ero il responsabile e il coordinatore prima nelle strade, rincorsi quasi sempre dalla polizia; e poi nelle case.
Sommariamente ti voglio descrivere il sacrificio che ci è voluto per portare avanti questo lavoro perché per un lungo periodo i giornali arrivavano alla stazione, poi fortunatamente da …
La ricerca dei compagni che dovevano diffonderla .. riscossione da giornale.
Anche per questo ti voglio raccontare un fatto. L’Amministrazione del giornale ha sempre fatto acqua (o in rosso) e un anno, non mi ricordo quale, il coordinatore regionale del giornale mi disse se volevo fare 12 cambiali per 57.000 lire mensili che corrispondevano a 180 copie settimanali la domenica.
Io ho accettato.
Ti ho detto sommariamente perché la diffusione di questi giornali sarebbe troppo lunga.
Ho avuto anche dei …, in Russia nell’agosto del 1961 per 15 giorni, qui alla … perché pativo di una dilatazione dei tendini alle mani. Sono stato ricoverato al CTO di Firenze in treno. Avevo in tasca 15.000 lire.
E la seconda volta avendo diffuso non ricordo quante Unità e Rinascita in Russia in aereo nel 1968 interrotti dai famosi fatti di Praga; e anche questa è un’altra storia.
Dopo essere disarcionato nel 1970 da segretario di sezione, anche per l’Unità fui rimpiazzato fino alla fine degli anni 70; poi il lavoro dell’Unità ricambiò come semplice diffusore e poi cascai nella rete e ricominciai ad avere tutte le responsabilità che avevo avuto prima.
Duro il lavoro anche perché cominciarono ad arrivare i libri che per uno come me che andava in bicicletta alla fine mi stancavo molto e tante volte la domenica pomeriggio andavo a letto.
Nei primi anni 50 per diversi anni insieme all’Unità si portava il …., Noi Donne, Rinascita.
Ti racconto una mattinata che è durata tanto tempo. Alle otto andavo alla stazione a prendere i pacchi; li portavo al circolo mentre aspettavo i compagni facevo le pulizie del circolo, poi partivo per fare i giri delle case in bicicletta e la sporta con i giornali; finivo alle 12.
Alcuni appuntamenti importanti, per finire.
1950: delegazione di pesciatini comunisti al trasporto di sei operai … ad una manifestazione sinadacale a Modena.
Togliatti … il dolore di tutti quanti, l’agro sapore delle vostre lacrime.
Piano per il lavoro a Milano al teatro … . non permettevano mai che i lavoratori italiani diventassero come una massa di camerieri.
Appello di Stoccolma per la pace.
Callodi in una riunione per illustrare l’importanza della firma per l’appello; fui interrotto e invitato dai carabinieri a smettere, la riunione era la chiuso in una stanza.
Convocato in caserma dai carabinieri e sottoposto ad un interrogatorio di terzo grado da un maresciallo dell’Arma.
Negli anni 50 trasporto del compagno Elio …, reduce dell’Abissinia (dalla parte degli abissini) dalla Spagna e partigiano combattente in Italia a Livorno. Grande commozione.
1964: trasporto a Roma per la morte di Togliatti.
1983: trasporto a Roma per la morte di Berlinguer.
Queste sono le cose che ti volevo dire anche se l’ho fatto in modo confusionale perché credo che per avere una descrizione più precisa, queste attività dovevano avere un’illustrazione più capillare e politicizzata. Si poteva avere allora una testimonianza cinquantennale sulla storia politico-sindacale di questi anni del dopo guerra e insieme ad altre testimonianze di compagni e non si potrebbe scrivere una pagina di storia della nostra Pescia e anche di quella italiana.
Sono stato anche nella commissione della Pubblica Assistenza e alla Coop di Pescia.
Ivo Papini
Caro Maurizio,
come ti avevo promesso oggi mi sono deciso di raccontarti le cariche che ho avuto nella mia vita politica e sindacale.
Alcune premesse: sono tornato da fare il soldato (guerra e prigionia) 15 novembre 1941-31 luglio 1946.
Sono tornato a lavorare in concia San Lorenzo a Reggio dopo un mesetto. Lì avevo già lavorato dal 22 giugno 1936 a metà del 1940. Disoccupato ho fatto domande per partire volontario in Marina e la Pubblica Sicurezza, respinte entrambe (così mi hanno detto) perché facevo il corso di …. Nel quadro dei vari corsi … … previsti per i giovani in quei tempi.
Ho lavorato per qualche mese, come manovale alle … a Pistoia, fine ’40 principio 1941.
Inoltre, mentre vi era un tentativo di riapertura della conceria, ho lavorato dell’altro tempo.
La mattina che dovevo andare al Sindacato fascista a fare la cartolina per il rientro regolare, il postino Pietrino mi ha consegnato quella della partenza da militare, destinazione 6 … Bologna.
Come ti ho detto sopra in conceria sono rientrato fine agosto. A settembre ’46 con mia sorpresa la paga per me e altri due nuovi era stata ridotta alla metà per sei mesi perché dovevamo rimparare il mestiere. Lo … (meno di un manovale) … e la spinta che mi spronò a diventare un sindacalista.
Per quanto riguarda l’iscrizione al P.C.I. la maturazione è stata lunga: mi sono iscritto insieme a Cesarina dopo che ci siamo sposati il 20 aprile 1947.
È stata lunga perché la maturazione, si potrebbe dire elementare, è formata da diversi fattori. Primo in famiglia, mio padre e mia madre erano sentimentalmente antifascisti, la miseria era forse il fattore trainante; parlavamo in casa, si sentivano le radio clandestine, durante la guerra di Spagna e la II guerra mondiale. Ma credo che tutto si fermasse lì. Parlare di socialismo nello spogliatoio della conceria era, e con coraggio, un .. di operaio furente dei padroni e poi poveretto … ….
Anche Ettorino .., quando si faceva i famosi nastri per la Piazza Mazzini mi spiegava cos’era il comunismo e canticchiava “bandiera rossa”.
Altre indicazioni le ho avute nel campo di concentramento 4 B.O.D. vicino a … nel canale di Suez, un amico prigioniero come me dopo una normale discussione mi disse allontanandosi indispettito: “tu parli come un comunista”. E una grossa sorpresa l’ebbi dopo il 25 luglio una … indiana mi disse “Mussolini caput” e il giorno dopo sopra il deposito dell’acqua apparve una bandiera rossa.
La mia sorpresa poi fu quando gli inglesi si mobilitarono per levarla.
Ed io piansi; pensai: «perché la levano se sono alleati contro il nazifascismo?»
Ma l’imbevitura portante verso quell’idea ci veniva data dall’ascolto di Radio Londra che trasmetteva i bollettini di guerra dove risaltava sicuramente la figura di Stalin per l’avanzata delle truppe dell’Armata Rossa verso Berlino.
Qui ti voglio raccontare un fatto interessante. Gli inglesi ci chiesero, dopo la caduta del fascismo, di diventare da prigionieri a prigionieri collaboratori. Questa scelta fu sofferta da me e tanti altri.
Eravamo 500 in quel campo e il primo giorno … pochi, poi la stragrande maggioranza nei giorni successivi fece quella scelta di passare a collaboratori. Anch’io benché quello che ti ho raccontato sopra dimostrasse che avevo una tendenza al cambiamento. Benché avessi visto le brutture del fascismo da civile e da militare… Negli inquadramenti prima di sciogliersi non si gridava più “viva il Duce!”, ma solo “viva il re!”. Sarà stato anche il patriottismo che ci ostacolava a fare quel passo.
Il 15 marzo 1945 i collaboratori li portarono a Napoli e poi a Taranto. Lavoratori del posto scaricavano navi piene di grano. Qui visitammo una sezione di Taranto vecchia io e un mio amico di Comacchio, volevamo le tessere di iscrizione; non ce le dettero perché eravamo militari.
Allora sottoscrivemmo per l’Unità. Una sera in una piazza parlava Giuseppe di Vittorio: non lo conoscevo ancora, ma poi è un’altra storia.
Cariche sindacali:
Segretario della commissione interna
Segreteria Camerale
Comitato Federale
Segretario dei chimici
Commissione ufficio del lavoro
Commissione commercio fisso
Segretario della Lega Conciatori
Delegato al III Congresso della C.G.I.L. 1952 a Napoli
Delegato per la Camera del Lavoro di Pistoia al Piano del Lavoro a Milano.
Incontro con Giuseppe di Vittorio: “compagno andiamo a lavorare” disse con un grosso sorriso (Milano 1950).
… in vari punti d’Italia: Milano, Bologna, Varese, Firenze, Pisa, Roma.
A Firenze incontro di Segretari Provinciali con Luciano Lanu: mi ricordo che gli posi una domanda “se sono i gruppi monopolistici che creano disagio alla classe operaia, allora perché usiamo gli stessi sistemi della piccola industria, scioperi ecc. e non cerchiamo di differenziare le lotte per vedere anche di crearsi degli alleati, visto che i gruppi monopolistici danneggiano anche la piccola industria?”. La risposta non la ricordo ma nel complesso fu negativa.
Queste annotazioni sono forse (fra le tante) fra le più importanti che ricordo, perché per raccontarle tutte ci vorrebbe che raccontassi le memorie della mia vita.
Per quanto riguarda le cariche che ho avuto nel P.C.I. di Pescia e di Pistoia, cerco di scrivere quelle che mi ricordo.
Cominciai al P.C.I. nella primavera del 1947: nello stesso anno fui ammesso al Comitato di Sezione e ci sono rimasto per circa 50 anni; sono uscito per mia richiesta. Volevo fare il semplice iscritto.
Segretario di Sezione, credo che fui nominato nel 1956 o 57 fino al 1970 (dove fui estromesso) credo dal 1956 perché al congresso provinciale fui nominato delegato all’ottavo congresso nazionale del partito.
Qui ti voglio raccontare un fatto che ho sempre mantenuto (quasi) segreto, forse un paio di persone lo sanno. Gliel’ho detto in questi ultimi anni e non mi ricordo a chi.
Ora dovrei farti una descrizione per renderti più consapevole di quell’atto, ma te lo descrivo in poche parole: nell’anno 1956 continuava la guerra fredda, le leggi liberticide di Scelba, i fascisti che avevano rialzato la testa, i fatti di Ungheria e il tentativo della Francia e dell’Inghilterra di conquistare il canale di Suez.
I padroni (ti scrivo come pensavo allora), specialmente i miei, erano diventati intolleranti e prepotenti. Cercavano loro che erano contro ogni manifestazione sindacale di farci fare lo sciopero per i fatti di Ungheria e noi dicemmo: “lo facciamo per l’invasione dei francesi e degli inglesi sul canale di Suez”. Situazione intollerante, l’ostilità fra me e loro si tagliava a fette.
Ed io dovevo chiedere il permesso di 10 giorni per recarmi a Roma al Congresso; impossibile, me lo avrebbero rifiutato.
Allora io 2-3 giorni prima della partenza per Roma, quando ero a lavare le vasche ed ero solo, picchiai con violenza un ginocchio contro il muretto della vasca e ne nacque un ematoma; andai all’ospedale dicendo che ero caduto lavorando e mi dettero, dopo le cure, 8 giorni di riposo. Così potei partire per il congresso.
Membro del Comitato provinciale del Partito credo per un triennio.
Delegato al XII Congresso Nazionale del Partito a Bologna nel 1969.
Sono stato nei vari comitati comunali di assistenza. Era, per la befana ai poveri, comitato per l’associazione degli alloggi provinciale e comunale.
Comitato comunale e intercomunale per le elezioni e rappresentante di lista per tantissimi anni.
Sono stato per sei anni vice giudice conciliatore.
Sono stato eletto consigliere comunale nel 1961 fino al 1987. nelle elezioni del 1970 fui votato per primo della lista del P.C.I.
Nel 1975-80 ho fatto l’assessore ai lavori pubblici a Firenze; poi, levati i lavori pubblici, mi assegnarono il turismo e lo sport.
La descrizione di questi 5 anni sarebbe una bella pagina di esperienza politica e istituzionale.
Ho avuto un’istruzione elementare (V elementare) anche se in certi periodi che andavo a scuola ho dovuto lavorare. Sono arrivato all’età di 24 anni e non avevo letto nemmeno un libro o un giornale.
Cominciai con l’Unità che in quel tempo riportava a puntate la Madre, credo di Borghi.
Lessi anche Gramsci, quando diceva che per combattere per la nostra causa c’era bisogno di tutta la nostra intelligenza. Istruirsi, istruirsi ancora.
Ho fatto il diffusore dell’Unità di cui ero il responsabile e il coordinatore prima nelle strade, rincorsi quasi sempre dalla polizia; e poi nelle case.
Sommariamente ti voglio descrivere il sacrificio che ci è voluto per portare avanti questo lavoro perché per un lungo periodo i giornali arrivavano alla stazione, poi fortunatamente da …
La ricerca dei compagni che dovevano diffonderla .. riscossione da giornale.
Anche per questo ti voglio raccontare un fatto. L’Amministrazione del giornale ha sempre fatto acqua (o in rosso) e un anno, non mi ricordo quale, il coordinatore regionale del giornale mi disse se volevo fare 12 cambiali per 57.000 lire mensili che corrispondevano a 180 copie settimanali la domenica.
Io ho accettato.
Ti ho detto sommariamente perché la diffusione di questi giornali sarebbe troppo lunga.
Ho avuto anche dei …, in Russia nell’agosto del 1961 per 15 giorni, qui alla … perché pativo di una dilatazione dei tendini alle mani. Sono stato ricoverato al CTO di Firenze in treno. Avevo in tasca 15.000 lire.
E la seconda volta avendo diffuso non ricordo quante Unità e Rinascita in Russia in aereo nel 1968 interrotti dai famosi fatti di Praga; e anche questa è un’altra storia.
Dopo essere disarcionato nel 1970 da segretario di sezione, anche per l’Unità fui rimpiazzato fino alla fine degli anni 70; poi il lavoro dell’Unità ricambiò come semplice diffusore e poi cascai nella rete e ricominciai ad avere tutte le responsabilità che avevo avuto prima.
Duro il lavoro anche perché cominciarono ad arrivare i libri che per uno come me che andava in bicicletta alla fine mi stancavo molto e tante volte la domenica pomeriggio andavo a letto.
Nei primi anni 50 per diversi anni insieme all’Unità si portava il …., Noi Donne, Rinascita.
Ti racconto una mattinata che è durata tanto tempo. Alle otto andavo alla stazione a prendere i pacchi; li portavo al circolo mentre aspettavo i compagni facevo le pulizie del circolo, poi partivo per fare i giri delle case in bicicletta e la sporta con i giornali; finivo alle 12.
Alcuni appuntamenti importanti, per finire.
1950: delegazione di pesciatini comunisti al trasporto di sei operai … ad una manifestazione sinadacale a Modena.
Togliatti … il dolore di tutti quanti, l’agro sapore delle vostre lacrime.
Piano per il lavoro a Milano al teatro … . non permettevano mai che i lavoratori italiani diventassero come una massa di camerieri.
Appello di Stoccolma per la pace.
Callodi in una riunione per illustrare l’importanza della firma per l’appello; fui interrotto e invitato dai carabinieri a smettere, la riunione era la chiuso in una stanza.
Convocato in caserma dai carabinieri e sottoposto ad un interrogatorio di terzo grado da un maresciallo dell’Arma.
Negli anni 50 trasporto del compagno Elio …, reduce dell’Abissinia (dalla parte degli abissini) dalla Spagna e partigiano combattente in Italia a Livorno. Grande commozione.
1964: trasporto a Roma per la morte di Togliatti.
1983: trasporto a Roma per la morte di Berlinguer.
Queste sono le cose che ti volevo dire anche se l’ho fatto in modo confusionale perché credo che per avere una descrizione più precisa, queste attività dovevano avere un’illustrazione più capillare e politicizzata. Si poteva avere allora una testimonianza cinquantennale sulla storia politico-sindacale di questi anni del dopo guerra e insieme ad altre testimonianze di compagni e non si potrebbe scrivere una pagina di storia della nostra Pescia e anche di quella italiana.
Sono stato anche nella commissione della Pubblica Assistenza e alla Coop di Pescia.
Ivo Papini
Com’è cambiato il nostro fiume…
Pescia, piccola ed antica città ubicata in provincia di Pistoia, prende il proprio nome dal piccolo fiume che l’attraversa e che, recentemente, ha subito radicali trasformazioni per l’intervento umano.
Di conseguenza, i non più giovani per averlo frequentato ed averci vissuto in prima persona ed i giovani d’oggi per aver preso visione delle numerose foto esistenti al riguardo, si rendono conto di quanto sia cambiato l’aspetto del fiume Pescia, negli ultimi decenni.
Checché se ne dica, per il pesciatino verace la Pescia è sempre stato un fiume e non un semplice torrente …che vien giù dalla montagna!
Intere generazioni sono in sostanza, nate nel fiume ed ivi hanno trascorso la maggior parte della gioventù, trastullandosi e, qualcuno, perfino lavorando sul suo sassoso greto.
Ciò che più sconcerta i veterani è la conformazione attuale del letto fluviale, così diversa e stravolta rispetto ad allora.
Nonostante tutto, fare polemiche ed apprezzamenti poco lusinghieri sarebbe inutile ed ingiusto verso coloro che si sono diligentemente prodigati al fine di porre in sicurezza argini ed alveo del fiume.
Elementi, che per tanti lustri hanno messo in pericolo la sicurezza della città e della circostante campagna, sono oggi un efficiente modello di come dovrebbero essere sistemati i corsi d’acqua dell’intero paese.
Però un senso di rimpianto alberga nel cuore del vecchio pesciatino che non può scordarsi di quanto era bello, pittoresco e ricco di pesce e rane il vecchio fiume.
Il letto era, in prevalenza, formato da macigni staccatisi dalla montagna (massi), che nello scendere a valle e frantumandosi, divenivano progressivamente più piccoli e levigati (pilloni e ghiaia).
L’acqua scorreva in ampie e lente anse, lambendo alternativamente l’uno e l’altro degli argini.
Volitive e ciarliere popolane scendevano nel fiume in chiassose comitive per affaticarsi nel settimanale bucato in questi limpidi specchi d’acqua; usavano, poi, stendere sul sassoso greto gli immacolati e profumati lenzuoli al fine di asciugarli al caldo sole.
Si dava forma allora, ad un idilliaco quadro e la gente che si trovava a passare sul ponte del Duomo si soffermava estasiata a rimirare quello che appariva, tale e quale, simile ad un quadro dei maestri macchiaioli livornesi.
Con le violente piene invernali e primaverili si venivano a configurare ampie distese d’acqua ristagnante che, essendo anche assai profonde, erano chiamate bozzoni e che per il pesciatino costituivano il mare …….(il mare dei poveri!).
Infatti, oltre a permettere grandi tuffi dall’argine ed estenuanti nuotate a grandi e piccini, tali bozzoni avevano le rive ricoperte da finissima sabbia che non aveva nulla da invidiare a quella, ben più famosa, della vicina Viareggio.
Negli assolati pomeriggi estivi ragazzi e adulti erano soliti crogiolarsi al rovente sole, dopo essersi
rinfrescati con lentezza nell’acqua limpida.
Qualche assetato (non c’erano ancora le indistruttibili ed invasive bottiglie d’acqua minerale) scavava fra la ghiaia in un luogo asciutto; scavava finché non affiorava acqua e, recitando una vecchia filastrocca locale, si dava a berla per calmare la sete incipiente; questi erano gli ingenui versi recitati: “L’acqua corrente la beve il serpente, la beve Iddio, la posso bere anch’io!”
Da quello che mi risulta nessuno contrasse, così facendo, tifo, dissenteria od altri malanni del genere, anzi godevano tutti di una salute invidiabile, tanto erano magri, affilati ed abbronzati (senza diete e senza l’ausilio di lampade solari!).
Spesso, dove il “bozzone” restringeva, si edificavano con “pilloni” stuccati con erba ed alghe, vere e proprie dighe, aventi lo scopo d’alzare ulteriormente il livello dell’acqua.
I ragazzi correvano a piedi scalzi su per i sassi appuntiti, con la pianta del piede protetta da una spessa callosità che li salvava da ferite ed escoriazioni, alla pari di robusta suola di cuoio.
In ogni modo gli abituali frequentatori del corso d'acqua non erano certo figli di papà.
Questi tipetti passeggiavano, rigidi e col petto in fuori, sui viali lungo il fiume; di sicuro avrebbero pagato per partecipare alle scorribande fluviali dei figli del popolino, anziché essere costretti, dai signori genitori a fare sfoggio d’eleganza pacchiana e di tanta inappropriata superbia; vigeva allora una manifesta separazione fra i diversi ceti cittadini che si cercava, se possibile, di non mischiare.
Soventemente, l’assolato greto era testimone d' agguerrite sassaiole fra bande di ragazzi rivali, provenienti dalle opposte rive del fiume e con in testa, per protezione, pentole e pitali rubati in casa propria.
Spesso ciò accadeva per rivendicare il diritto di fare per primi il bagno nel nuovo bozzone creato dall’ultima piena o per accaparrarsi i diritti su di un banco di sabbia; ogni scusa era buona per dare inizio a cruente battaglie.
Queste avevano poi termine con l’intervento degli arrabbiatissimi genitori che, tanto per cambiare prendevano a sberle (pacconi, botte, cinghiate, calcinculo e ciaffate) i recidivi figlioli per portarseli a casa o all’ospedale per sottoporli a certe dolorose ricuciture del cuoio capelluto, lacerato da una maligna sassata; gli infermieri, istruiti a dovere, ricucivano le ferite rudemente e senza preventiva anestesia così da eliminare eventuali rimasugli di velleità negli schizzati monelli.
Allora non esisteva il così chiamato telefono azzurro ed ognuno si teneva le sue “botte” e i suoi lividi in silenzioso e cogitabondo arzigogolare sulla propria malasorte.
Un’altra peculiarità della Pescia era quella di dare lavoro a qualche renaiolo che sbarcava la giornata setacciando sabbia e ghiaia per l’edilizia; questo lavoro veniva fatto scagliando il materiale dell’alveo, con gran lena, contro certi telai verticali che portavano una fitta rete metallica; questo sistema permetteva di separare la sabbia dai sassi e la rendeva consona per la malta dei muratori.
Si cavavano sassi di misure assortite e si portavano, con immani fatiche, sulle strade adiacenti il fiume e che servivano, anche questi, agli operai edili.
Ricordo un tale, che con gran tenacia ed in spazi specifici, vagliava palate e palate di materiale di riporto, per ricavarne cumuli di minuscoli e colorati frammenti di vetro, utilizzati dalle locali vetrerie; essi erano la risulta del frammentarsi, ruzzolando nella corrente impetuosa, di bottiglie ed altri oggetti di vetro, scaricati a monte dagli antesignani degli attuali inquinatori.
Lungo l’argine, nei punti più calmi, la piena rilasciava grandi quantità di terra ed humus fertilissimo; era questo e su scala infinitesimale, l’equivalente risultato delle piene annuali del Nilo!
Molti volenterosi recintavano piccole porzioni di questa terra (i famosi orticini) ed ivi coltivavano ogni genere di verdure dal sapore straordinario.
Il letto del fiume si prestava a numerose attività complementari per i cittadini più ingegnosi e fra queste la più caratteristica era quella di…….ballar le panelle!
Queste panelle erano fatte con il cosiddetto mortellaccio che altro non era che uno scarto delle numerose concerie, allora presenti in quel di Pescia.
Il mortellaccio era scaricato, oltre che nelle corti cittadine e nelle aie, anche nell’orticino e lavorato in maniera adeguata: se ne prendeva, con una pala, un’adatta quantità da versar dentro un cerchietto metallico, largo circa quindici centimetri ed alto quattro.
Ora veniva la parte più importante: a piedi rigorosamente scalzi, si cominciava letteralmente a ballare sul cerchietto con i talloni, al fine di comprimere l’umida e scura segatura (era questo il materiale costituente il mortellaccio).
Quando il tutto era ben compattato, con destrezza si estraeva la panella dal cerchio e si metteva, in pile ben ordinate, ad asciugare al sole estivo.
Queste panelle sarebbero servite, nell’inverno successivo, a riscaldare le fredde case d’allora, bruciando lentamente nelle cucine economiche, alla faccia dell’esecrabile petrolio e dei suoi dannosi derivati.
Bisogna riconoscere che allora esisteva l’arte di arrangiarsi, mentre ora tutto deve essere disponibile senza fatica e senza dannarsi l’anima, con certi risultati ben visibili a tutti.
Per tornare a parlare del vecchio fiume c’è da dire che la sua fauna ittica e volatile era ben diversa da quella attuale.
Nei punti dove l’acqua era quasi ferma, allignavano lunghe alghe verdissime (la belletta) che formavano il paradiso di minuscoli abitatori acquatici; fra questi la larva della variopinta, e fulminea nel volo, libellula e l’incredibile idrometra (hydrometra stagnorum) conosciuta come “ la spia”: questo minuscolo tesserino, lungo un centimetro, pattinava, con grazia ed eleganza, con esili e lunghe zampette, sulla superficie acquatica; c’era la credenza che facessero da spie ai pesci, avvisandoli dell’approssimarsi di qualche pericolo.
L’acqua pullulava di diverse qualità di pesci fra cui lo scomparso e pregiato pescatello, il minuscolo (piccolo e saporito) vairone, l’astuto barbo, la piccola alborella e l’elusiva anguilla, per non parlare di una varietà di piccolo pesce persico (in loco chiamato orologio) che era coloratissimo e poco commestibile.
Ma il re del fiume era lui, il ranocchio.
Questo petulante batrace deponeva le proprie uova in lunghi filamenti, ancorati sul fondo; da esse sarebbero poi nati innumerevoli girini (i capaccioli) che dopo alterne fasi si mutavano in rane adulte.
Giorno e notte i suoi concerti riempivano l’aria del fiume e davano un caratteristico tono al circostante ambiente.
Erano graziosi con la loro verde e scivolosa livrea e costituivano una leccornia eccezionale.
Ingegnosi erano i metodi per catturarli ed erano, da lungo tempo, usati dai pescatori professionali, operanti nel vicino padule.
Potevi camminar nell’acqua poco profonda ed abbacinarli con luminosissime lampade a carburo ed
i più abili li afferravano prima che si nascondessero nel letto limaccioso.
C’era chi procedeva lentamente con l’acqua alle ginocchia e li catturava tastando il fondo.
Noi ragazzi riuscivamo ad agganciarli con un grosso amo ad ancoretta che, però straziava loro le carni e li faceva soffrire troppo.
Il ranocchio innamorato che corteggia la femmina si fa imprudente, finendo per essere facile preda delle lunghe ed innocue bisce, grossi topi di chiavica e…dell’uomo!
Già, bisogna dire che tutti questi pesci ed anfibi facevano parte dell’alimentazione popolare ed erano particolarmente apprezzati infarinati e fritti nell’onnipresente padella, accompagnati dalle sapide verdure raccolte nell’orticino del babbo; di solito in tal luogo si facevano, spesso e volentieri, pranzi, cene e grandi libagioni non essendo ancora la gente, vittima dell’odierno stress.
Può oggi, sembrare impossibile, ma allora c’era tempo disponibile per tutto, perfino per i rapporti umani con i vicini e gli amici.
Tornando all’argomento primario si constata che questo tipo di fauna oggi non esiste più da queste parti e tutti quei pesci ed anfibi sono stati spodestati dal cannibalesco ed insaziabile cavedano (nome scientifico Leuciscus cephalus).
Infatti tale cavedano, al contrario della maggior parte dei pesci d’acqua dolce, non ha bisogno delle stagni per alimentarsi e riprodursi e con l’acqua che, oggidì, scorre veloce nel letto rettilineo, ha avuto buon gioco il suo inarrestabile riprodursi a danno di altre specie.
Gli uccelli erano rappresentati dai balestrucci (balestrini), rondini comuni e rondoni sfreccianti a pelo d’acqua, passerotti, cardellini e dalle saltellanti ballerine gialle (nome scientifico Motacilla cinerea).
La vegetazione era prettamente acquatica: giunchi, salie (salici nani) e tante ondeggianti alghe; le piene primaverili, improvvise e violente spazzavano via, talvolta, le piante rivierasche prima che attecchissero in modo stabile e crescessero a dismisura come crescono oggi.
Molte piante erano utili per ricavarne legacci usati in agricoltura al fine di sostenere le piante orticole e floreali.
Nelle sere estive intere famiglie amiche si riunivano negli orticini o sui banchi di rena a mangiare qualcosa, raccontandosi la passata giornata ed aspettare l’ora che volge al desio( e ai naviganti intenerisce il core)……
Giancarlo Noferini
Di conseguenza, i non più giovani per averlo frequentato ed averci vissuto in prima persona ed i giovani d’oggi per aver preso visione delle numerose foto esistenti al riguardo, si rendono conto di quanto sia cambiato l’aspetto del fiume Pescia, negli ultimi decenni.
Checché se ne dica, per il pesciatino verace la Pescia è sempre stato un fiume e non un semplice torrente …che vien giù dalla montagna!
Intere generazioni sono in sostanza, nate nel fiume ed ivi hanno trascorso la maggior parte della gioventù, trastullandosi e, qualcuno, perfino lavorando sul suo sassoso greto.
Ciò che più sconcerta i veterani è la conformazione attuale del letto fluviale, così diversa e stravolta rispetto ad allora.
Nonostante tutto, fare polemiche ed apprezzamenti poco lusinghieri sarebbe inutile ed ingiusto verso coloro che si sono diligentemente prodigati al fine di porre in sicurezza argini ed alveo del fiume.
Elementi, che per tanti lustri hanno messo in pericolo la sicurezza della città e della circostante campagna, sono oggi un efficiente modello di come dovrebbero essere sistemati i corsi d’acqua dell’intero paese.
Però un senso di rimpianto alberga nel cuore del vecchio pesciatino che non può scordarsi di quanto era bello, pittoresco e ricco di pesce e rane il vecchio fiume.
Il letto era, in prevalenza, formato da macigni staccatisi dalla montagna (massi), che nello scendere a valle e frantumandosi, divenivano progressivamente più piccoli e levigati (pilloni e ghiaia).
L’acqua scorreva in ampie e lente anse, lambendo alternativamente l’uno e l’altro degli argini.
Volitive e ciarliere popolane scendevano nel fiume in chiassose comitive per affaticarsi nel settimanale bucato in questi limpidi specchi d’acqua; usavano, poi, stendere sul sassoso greto gli immacolati e profumati lenzuoli al fine di asciugarli al caldo sole.
Si dava forma allora, ad un idilliaco quadro e la gente che si trovava a passare sul ponte del Duomo si soffermava estasiata a rimirare quello che appariva, tale e quale, simile ad un quadro dei maestri macchiaioli livornesi.
Con le violente piene invernali e primaverili si venivano a configurare ampie distese d’acqua ristagnante che, essendo anche assai profonde, erano chiamate bozzoni e che per il pesciatino costituivano il mare …….(il mare dei poveri!).
Infatti, oltre a permettere grandi tuffi dall’argine ed estenuanti nuotate a grandi e piccini, tali bozzoni avevano le rive ricoperte da finissima sabbia che non aveva nulla da invidiare a quella, ben più famosa, della vicina Viareggio.
Negli assolati pomeriggi estivi ragazzi e adulti erano soliti crogiolarsi al rovente sole, dopo essersi
rinfrescati con lentezza nell’acqua limpida.
Qualche assetato (non c’erano ancora le indistruttibili ed invasive bottiglie d’acqua minerale) scavava fra la ghiaia in un luogo asciutto; scavava finché non affiorava acqua e, recitando una vecchia filastrocca locale, si dava a berla per calmare la sete incipiente; questi erano gli ingenui versi recitati: “L’acqua corrente la beve il serpente, la beve Iddio, la posso bere anch’io!”
Da quello che mi risulta nessuno contrasse, così facendo, tifo, dissenteria od altri malanni del genere, anzi godevano tutti di una salute invidiabile, tanto erano magri, affilati ed abbronzati (senza diete e senza l’ausilio di lampade solari!).
Spesso, dove il “bozzone” restringeva, si edificavano con “pilloni” stuccati con erba ed alghe, vere e proprie dighe, aventi lo scopo d’alzare ulteriormente il livello dell’acqua.
I ragazzi correvano a piedi scalzi su per i sassi appuntiti, con la pianta del piede protetta da una spessa callosità che li salvava da ferite ed escoriazioni, alla pari di robusta suola di cuoio.
In ogni modo gli abituali frequentatori del corso d'acqua non erano certo figli di papà.
Questi tipetti passeggiavano, rigidi e col petto in fuori, sui viali lungo il fiume; di sicuro avrebbero pagato per partecipare alle scorribande fluviali dei figli del popolino, anziché essere costretti, dai signori genitori a fare sfoggio d’eleganza pacchiana e di tanta inappropriata superbia; vigeva allora una manifesta separazione fra i diversi ceti cittadini che si cercava, se possibile, di non mischiare.
Soventemente, l’assolato greto era testimone d' agguerrite sassaiole fra bande di ragazzi rivali, provenienti dalle opposte rive del fiume e con in testa, per protezione, pentole e pitali rubati in casa propria.
Spesso ciò accadeva per rivendicare il diritto di fare per primi il bagno nel nuovo bozzone creato dall’ultima piena o per accaparrarsi i diritti su di un banco di sabbia; ogni scusa era buona per dare inizio a cruente battaglie.
Queste avevano poi termine con l’intervento degli arrabbiatissimi genitori che, tanto per cambiare prendevano a sberle (pacconi, botte, cinghiate, calcinculo e ciaffate) i recidivi figlioli per portarseli a casa o all’ospedale per sottoporli a certe dolorose ricuciture del cuoio capelluto, lacerato da una maligna sassata; gli infermieri, istruiti a dovere, ricucivano le ferite rudemente e senza preventiva anestesia così da eliminare eventuali rimasugli di velleità negli schizzati monelli.
Allora non esisteva il così chiamato telefono azzurro ed ognuno si teneva le sue “botte” e i suoi lividi in silenzioso e cogitabondo arzigogolare sulla propria malasorte.
Un’altra peculiarità della Pescia era quella di dare lavoro a qualche renaiolo che sbarcava la giornata setacciando sabbia e ghiaia per l’edilizia; questo lavoro veniva fatto scagliando il materiale dell’alveo, con gran lena, contro certi telai verticali che portavano una fitta rete metallica; questo sistema permetteva di separare la sabbia dai sassi e la rendeva consona per la malta dei muratori.
Si cavavano sassi di misure assortite e si portavano, con immani fatiche, sulle strade adiacenti il fiume e che servivano, anche questi, agli operai edili.
Ricordo un tale, che con gran tenacia ed in spazi specifici, vagliava palate e palate di materiale di riporto, per ricavarne cumuli di minuscoli e colorati frammenti di vetro, utilizzati dalle locali vetrerie; essi erano la risulta del frammentarsi, ruzzolando nella corrente impetuosa, di bottiglie ed altri oggetti di vetro, scaricati a monte dagli antesignani degli attuali inquinatori.
Lungo l’argine, nei punti più calmi, la piena rilasciava grandi quantità di terra ed humus fertilissimo; era questo e su scala infinitesimale, l’equivalente risultato delle piene annuali del Nilo!
Molti volenterosi recintavano piccole porzioni di questa terra (i famosi orticini) ed ivi coltivavano ogni genere di verdure dal sapore straordinario.
Il letto del fiume si prestava a numerose attività complementari per i cittadini più ingegnosi e fra queste la più caratteristica era quella di…….ballar le panelle!
Queste panelle erano fatte con il cosiddetto mortellaccio che altro non era che uno scarto delle numerose concerie, allora presenti in quel di Pescia.
Il mortellaccio era scaricato, oltre che nelle corti cittadine e nelle aie, anche nell’orticino e lavorato in maniera adeguata: se ne prendeva, con una pala, un’adatta quantità da versar dentro un cerchietto metallico, largo circa quindici centimetri ed alto quattro.
Ora veniva la parte più importante: a piedi rigorosamente scalzi, si cominciava letteralmente a ballare sul cerchietto con i talloni, al fine di comprimere l’umida e scura segatura (era questo il materiale costituente il mortellaccio).
Quando il tutto era ben compattato, con destrezza si estraeva la panella dal cerchio e si metteva, in pile ben ordinate, ad asciugare al sole estivo.
Queste panelle sarebbero servite, nell’inverno successivo, a riscaldare le fredde case d’allora, bruciando lentamente nelle cucine economiche, alla faccia dell’esecrabile petrolio e dei suoi dannosi derivati.
Bisogna riconoscere che allora esisteva l’arte di arrangiarsi, mentre ora tutto deve essere disponibile senza fatica e senza dannarsi l’anima, con certi risultati ben visibili a tutti.
Per tornare a parlare del vecchio fiume c’è da dire che la sua fauna ittica e volatile era ben diversa da quella attuale.
Nei punti dove l’acqua era quasi ferma, allignavano lunghe alghe verdissime (la belletta) che formavano il paradiso di minuscoli abitatori acquatici; fra questi la larva della variopinta, e fulminea nel volo, libellula e l’incredibile idrometra (hydrometra stagnorum) conosciuta come “ la spia”: questo minuscolo tesserino, lungo un centimetro, pattinava, con grazia ed eleganza, con esili e lunghe zampette, sulla superficie acquatica; c’era la credenza che facessero da spie ai pesci, avvisandoli dell’approssimarsi di qualche pericolo.
L’acqua pullulava di diverse qualità di pesci fra cui lo scomparso e pregiato pescatello, il minuscolo (piccolo e saporito) vairone, l’astuto barbo, la piccola alborella e l’elusiva anguilla, per non parlare di una varietà di piccolo pesce persico (in loco chiamato orologio) che era coloratissimo e poco commestibile.
Ma il re del fiume era lui, il ranocchio.
Questo petulante batrace deponeva le proprie uova in lunghi filamenti, ancorati sul fondo; da esse sarebbero poi nati innumerevoli girini (i capaccioli) che dopo alterne fasi si mutavano in rane adulte.
Giorno e notte i suoi concerti riempivano l’aria del fiume e davano un caratteristico tono al circostante ambiente.
Erano graziosi con la loro verde e scivolosa livrea e costituivano una leccornia eccezionale.
Ingegnosi erano i metodi per catturarli ed erano, da lungo tempo, usati dai pescatori professionali, operanti nel vicino padule.
Potevi camminar nell’acqua poco profonda ed abbacinarli con luminosissime lampade a carburo ed
i più abili li afferravano prima che si nascondessero nel letto limaccioso.
C’era chi procedeva lentamente con l’acqua alle ginocchia e li catturava tastando il fondo.
Noi ragazzi riuscivamo ad agganciarli con un grosso amo ad ancoretta che, però straziava loro le carni e li faceva soffrire troppo.
Il ranocchio innamorato che corteggia la femmina si fa imprudente, finendo per essere facile preda delle lunghe ed innocue bisce, grossi topi di chiavica e…dell’uomo!
Già, bisogna dire che tutti questi pesci ed anfibi facevano parte dell’alimentazione popolare ed erano particolarmente apprezzati infarinati e fritti nell’onnipresente padella, accompagnati dalle sapide verdure raccolte nell’orticino del babbo; di solito in tal luogo si facevano, spesso e volentieri, pranzi, cene e grandi libagioni non essendo ancora la gente, vittima dell’odierno stress.
Può oggi, sembrare impossibile, ma allora c’era tempo disponibile per tutto, perfino per i rapporti umani con i vicini e gli amici.
Tornando all’argomento primario si constata che questo tipo di fauna oggi non esiste più da queste parti e tutti quei pesci ed anfibi sono stati spodestati dal cannibalesco ed insaziabile cavedano (nome scientifico Leuciscus cephalus).
Infatti tale cavedano, al contrario della maggior parte dei pesci d’acqua dolce, non ha bisogno delle stagni per alimentarsi e riprodursi e con l’acqua che, oggidì, scorre veloce nel letto rettilineo, ha avuto buon gioco il suo inarrestabile riprodursi a danno di altre specie.
Gli uccelli erano rappresentati dai balestrucci (balestrini), rondini comuni e rondoni sfreccianti a pelo d’acqua, passerotti, cardellini e dalle saltellanti ballerine gialle (nome scientifico Motacilla cinerea).
La vegetazione era prettamente acquatica: giunchi, salie (salici nani) e tante ondeggianti alghe; le piene primaverili, improvvise e violente spazzavano via, talvolta, le piante rivierasche prima che attecchissero in modo stabile e crescessero a dismisura come crescono oggi.
Molte piante erano utili per ricavarne legacci usati in agricoltura al fine di sostenere le piante orticole e floreali.
Nelle sere estive intere famiglie amiche si riunivano negli orticini o sui banchi di rena a mangiare qualcosa, raccontandosi la passata giornata ed aspettare l’ora che volge al desio( e ai naviganti intenerisce il core)……
Giancarlo Noferini
…….oggi tutto è diverso!
L’alveo del fiume non è più sassoso ed impervio ma ricoperto da un folto strato erboso soffice e che invita a camminare.
(Ma il camminare d’oggi non è più lenta e riposante passeggiata; è diventato, invece, un impegno, faticoso e per nulla rilassante.
S’è evoluto nell’imperante jogging made in U.S.A.
Questa ferrea disciplina non contempla, nel suo svolgersi, inutili soste per scambiare vani discorsi con chi incontri sul cammino, ma il procedere ad oltranza fino non si sono smaltite la quantità di calorie stabilita in partenza)
(Sia ben chiaro che questa digressione non ha alcuna attinenza con il problema del cambiamento avvenuto nel fiume)
Il letto del fiume è, in pratica, solcato da un canale rettilineo che permette all’acqua di scorrere agevolmente e senza ostacoli.
Gli “orticini” sono stati letteralmente scassati in seguito ad un’ordinanza del consorzio fluviale che li ha, a suo tempo, polemicamente individuati come ostacoli allo scorrimento delle acque, in caso di piene improvvise.
Di conseguenza, la flora fluviale adesso è quella tipica del vicino padule ed abbondano tife, erba quadrotta e papiro.
Questa trasformazione ha indotto anche un gran cambiamento nella fauna acquatica e volatile.
Come abbiamo visto, l’unico pesce che si trova a suo agio nelle acque correnti è il cavedano (Leuciscus cephalus) che si ciba d'altri pesci fra cui anche i propri avannotti.
In quanto agli uccelli si registra, in continuazione, l’arrivo di specie migratorie, specifiche del padule.
Il lato singolare di tutto ciò è che tutti questi uccelli non migrano più, ma diventano abitanti stabili
di questo tratto di fiume e qui si accoppiano e si riproducono.
Non è da giudicare positiva un’evoluzione del genere dato che, certamente, è da imputarsi al reale cambiamento climatico indotto dall’uomo.
Il germano reale (anas platyrhynchos) si è qui insediato in cospicue e starnazzanti colonie nel cui interno si svolgono giornaliere battaglie fra i focosi maschi che vogliono scegliersi la loro compagna.
A primavera avvengono numerose nascite ma la maggior parte dei neonati diventa preda delle grosse pantegane (ratti delle fogne).
In ogni caso i sopravvissuti non sono pochi e vanno ad incrementare la folta popolazione esistente.
Il maestoso airone cinerino (Ardea cinerea) si libra dalla sommità dei grandi cedri del Libano, propiscienti i lati del fiume, per planare nell’acqua onde ghermire uno sprovveduto cavedano.
La candida garzetta (Egretta garzetta) caccia i pesci come l’airone, ma è più elusiva e timida del fratello maggiore.
Un tipo davvero straordinario fra questi pennuti è, senz’altro, la buffa nitticora (Nicticorax nicticorax) che qualche sprovveduto reporter ha scambiato (…questo è il colmo!) per un pinguino; la nitticora, come dice il suo nome, caccia pesci ed insetti di notte ed è sporadicamente visibile nelle ore diurne.
La gallinella d’acqua (Gallinula chloropus) si lascia intravedere, celandosi fra la folta vegetazione e correndo veloce tra i massi, anche lei a caccia di piccoli pesci e vermiciattoli.
La palma della singolarità, però, spetta ad un altro uccello che è sempre stato molto raro e poco osservabile.
In effetti, il merlo acquaiolo (Cinclus cinclus), prima d’ora non era mai sceso dai torrenti montani e la sua presenza qui costituisce un’autentica stranezza per l’ornitologo.
Esso ha le dimensioni di un grosso merlo nero da cui si differenzia, nell’aspetto, per il petto e la gola coperti da una vistosa macchia bianca.
Staziona, abitualmente sui massi affioranti in piena corrente ed è in grado di nuotare e camminare sul fondo dei torrenti, senza nessuna difficoltà, per procacciarsi vermi e minuti pesciolini.
La sua osservazione richiede perseveranza e pazienza, ma una volta conseguita, suscita grande meraviglia il vedere all’opera questo minuscolo predatore.
Invero lo stanziamento di questa fauna, non peculiare delle nostre latitudini, la dice lunga sul preoccupante fenomeno del cambiamento climatico globale.
La pubblica opinione dovrebbe essere maggiormente consapevole dei rischi che incombono sull’uomo, anziché trascorrere il tempo a discettare passivamente, sull’ultimo reality, visto in TV la sera precedente.
Sarebbe, invece, opportuno esercitare la dovuta pressione sugli, eternamente irreperibili, addetti ai lavori.
Ebbene, come s’è constatato, oggi il fiume è bellissimo, così verde ed agevole ed offre tante possibilità di svago al cittadino.
Perfino interessanti spettacoli della natura.
Ma in un futuro prossimo venturo, se continua così, dove porteranno tutti questi innaturali cambiamenti?
Sicuramente, i pesciatini più anziani vorrebbero rivedere e godersi il fiume d’una volta, ma è d’uopo far largo alle nuove generazioni perché sono queste le forze che hanno l’obbligo ed il dovere del darsi da fare per salvare l’ambiente dalle incombenti minacce che si profilano all’orizzonte, fra la cinica indifferenza dell’autorità preposta.
Per terminare questa (noiosa?) carrellata non c’è che sperare in un futuro più equo e consono alle necessità ambientali e, proprio una di queste è quella d’avere maggior rispetto per il vecchio torrente cittadino e non usarlo come personale discarica di cartaccia, plastica ed indistruttibili vuoti d’acqua minerale.
In ogni modo correggiamoci: si sarebbe dovuto dire, fiume e non torrente...
Giancarlo Noferini
(Ma il camminare d’oggi non è più lenta e riposante passeggiata; è diventato, invece, un impegno, faticoso e per nulla rilassante.
S’è evoluto nell’imperante jogging made in U.S.A.
Questa ferrea disciplina non contempla, nel suo svolgersi, inutili soste per scambiare vani discorsi con chi incontri sul cammino, ma il procedere ad oltranza fino non si sono smaltite la quantità di calorie stabilita in partenza)
(Sia ben chiaro che questa digressione non ha alcuna attinenza con il problema del cambiamento avvenuto nel fiume)
Il letto del fiume è, in pratica, solcato da un canale rettilineo che permette all’acqua di scorrere agevolmente e senza ostacoli.
Gli “orticini” sono stati letteralmente scassati in seguito ad un’ordinanza del consorzio fluviale che li ha, a suo tempo, polemicamente individuati come ostacoli allo scorrimento delle acque, in caso di piene improvvise.
Di conseguenza, la flora fluviale adesso è quella tipica del vicino padule ed abbondano tife, erba quadrotta e papiro.
Questa trasformazione ha indotto anche un gran cambiamento nella fauna acquatica e volatile.
Come abbiamo visto, l’unico pesce che si trova a suo agio nelle acque correnti è il cavedano (Leuciscus cephalus) che si ciba d'altri pesci fra cui anche i propri avannotti.
In quanto agli uccelli si registra, in continuazione, l’arrivo di specie migratorie, specifiche del padule.
Il lato singolare di tutto ciò è che tutti questi uccelli non migrano più, ma diventano abitanti stabili
di questo tratto di fiume e qui si accoppiano e si riproducono.
Non è da giudicare positiva un’evoluzione del genere dato che, certamente, è da imputarsi al reale cambiamento climatico indotto dall’uomo.
Il germano reale (anas platyrhynchos) si è qui insediato in cospicue e starnazzanti colonie nel cui interno si svolgono giornaliere battaglie fra i focosi maschi che vogliono scegliersi la loro compagna.
A primavera avvengono numerose nascite ma la maggior parte dei neonati diventa preda delle grosse pantegane (ratti delle fogne).
In ogni caso i sopravvissuti non sono pochi e vanno ad incrementare la folta popolazione esistente.
Il maestoso airone cinerino (Ardea cinerea) si libra dalla sommità dei grandi cedri del Libano, propiscienti i lati del fiume, per planare nell’acqua onde ghermire uno sprovveduto cavedano.
La candida garzetta (Egretta garzetta) caccia i pesci come l’airone, ma è più elusiva e timida del fratello maggiore.
Un tipo davvero straordinario fra questi pennuti è, senz’altro, la buffa nitticora (Nicticorax nicticorax) che qualche sprovveduto reporter ha scambiato (…questo è il colmo!) per un pinguino; la nitticora, come dice il suo nome, caccia pesci ed insetti di notte ed è sporadicamente visibile nelle ore diurne.
La gallinella d’acqua (Gallinula chloropus) si lascia intravedere, celandosi fra la folta vegetazione e correndo veloce tra i massi, anche lei a caccia di piccoli pesci e vermiciattoli.
La palma della singolarità, però, spetta ad un altro uccello che è sempre stato molto raro e poco osservabile.
In effetti, il merlo acquaiolo (Cinclus cinclus), prima d’ora non era mai sceso dai torrenti montani e la sua presenza qui costituisce un’autentica stranezza per l’ornitologo.
Esso ha le dimensioni di un grosso merlo nero da cui si differenzia, nell’aspetto, per il petto e la gola coperti da una vistosa macchia bianca.
Staziona, abitualmente sui massi affioranti in piena corrente ed è in grado di nuotare e camminare sul fondo dei torrenti, senza nessuna difficoltà, per procacciarsi vermi e minuti pesciolini.
La sua osservazione richiede perseveranza e pazienza, ma una volta conseguita, suscita grande meraviglia il vedere all’opera questo minuscolo predatore.
Invero lo stanziamento di questa fauna, non peculiare delle nostre latitudini, la dice lunga sul preoccupante fenomeno del cambiamento climatico globale.
La pubblica opinione dovrebbe essere maggiormente consapevole dei rischi che incombono sull’uomo, anziché trascorrere il tempo a discettare passivamente, sull’ultimo reality, visto in TV la sera precedente.
Sarebbe, invece, opportuno esercitare la dovuta pressione sugli, eternamente irreperibili, addetti ai lavori.
Ebbene, come s’è constatato, oggi il fiume è bellissimo, così verde ed agevole ed offre tante possibilità di svago al cittadino.
Perfino interessanti spettacoli della natura.
Ma in un futuro prossimo venturo, se continua così, dove porteranno tutti questi innaturali cambiamenti?
Sicuramente, i pesciatini più anziani vorrebbero rivedere e godersi il fiume d’una volta, ma è d’uopo far largo alle nuove generazioni perché sono queste le forze che hanno l’obbligo ed il dovere del darsi da fare per salvare l’ambiente dalle incombenti minacce che si profilano all’orizzonte, fra la cinica indifferenza dell’autorità preposta.
Per terminare questa (noiosa?) carrellata non c’è che sperare in un futuro più equo e consono alle necessità ambientali e, proprio una di queste è quella d’avere maggior rispetto per il vecchio torrente cittadino e non usarlo come personale discarica di cartaccia, plastica ed indistruttibili vuoti d’acqua minerale.
In ogni modo correggiamoci: si sarebbe dovuto dire, fiume e non torrente...
Giancarlo Noferini
Pescia, 1999 - La cartiera "Le carte"
Iscriviti a:
Post (Atom)